In questa pagina racconto cose che si dovrebbero sapere e che invece sembrano ignorate dai più, soprattutto da chi, pur avendo forma umana, non ha l’io né l’attività interiore (anima). La sapienza antropomorfica di cui qui tratto non è altro che lo sviluppo dell’antica sophia (sapienza), considerata nel secolo passato il continuum, almeno come speranza, delle conoscenze del catarismo e del manicheismo, concezioni che si erano delineate da varie parti e, soprattutto, nel villaggio di Arques (nell’Aude) intorno a Déodat Roché (1877-1978).

Dal 1996 la casa di Déodat Roché, situata nel centro del villaggio di Arques, ospita infatti un’esposizione permanente, consacrata al catarismo.
Dal 1890, il Roché aveva studiato, assieme a suo padre, autori occultisti francesi del suo tempo, tra cui Édouard Schuré e Fabre d’Olivet. In gioventù ho studiato l’opera di quest’ultimo, intitolata “La lingua ebraica restituita”, che mi è stata di ispirazione per altre mie ricerche e saggi sull’alfabeto ebraico (cfr. i volumi “Numerologia biblica”, Il sacro simbolo” anche in “Aporie”).
L’importanza dei catari e dei manichei, tanto vituperati dalla chiesa cattolico-romana è riconosciuta da studiosi di tutto il mondo.
Quanto segue è una raccolta di vecchi appunti che mai avrei pensato di pubblicare, dato che, come ripeto, sono cose risapute, che però nessuno oramai ricorda più. Perché l’uomo si è molto animalizzato, non solo a causa della “scienza” odierna, che non distingue il regno animale dal regno ominale dei figli degli uomini dotati di io (cfr. Fabre D’Olivet in “La lingua ebraica restituita”, capitoli 6°, 7° e 9°), ma anche perché gli fu impedito o si dimenticò di pensare - già nell’antichità - che gli uomini dell’impero romano (“omina imperii”) non erano così divini come facevano credere ai “cittadini”: nella loro messa in scena, gli omina Imperii, in particolare quelli strettamente vincolati ai simboli della regalità, incarnarono con efficacia sia in oriente che in occidente l'enorme versatilità semantica del potere quando il potere si associa alle manifestazioni del sovrasensibile o del “soprannaturale” (delle confessioni religiose). La letteratura classica rivela come le cosiddette cose straordinarie dette mirabilia, “mira” o “noxia”, vere o false) appaiano frequentemente relazionate con individui che svolgevano ruoli politici rilevanti e come la propaganda del potere le usavano come sequenze privilegiate rispetto ad altre forme o mezzi di consenso (cfr. Silvia Acerbi, "Il valore ominale dell'Oriente fra cristianesimo e paganesimo: potere imperiale e prodigi in età flavia", Revista Historias del Orbis Terrarum, ISSN 0718-7246, 2019, n. 22; PDF scaricabile: https://dialnet.unirioja.es/descarga/articulo/7037537.pdf).
Già al tempo dell’imperatore Vespasiano, regnante dal 69 al 79, il concetto di ominale fu dunque degenerato e dimenticato durante la corruzione dell’impero e nei secoli successivi.
Nel secondo millennio (1242) iniziarono invece scontri sempre più aspri fra Federico 2° e il papa Onorio 3°, suo tutore, che degenerarono lo “stile” già criminale delle precedenti crociate, contro i catari e gli islamici. La chiesa cattolica si era infatti impegnata universalmente e in modo “santo” nelle crociate, sempre più predicate dal pulpito domenicale come autentica missione del cristianesimo nel mondo, ma la loro natura consisteva in pratica nello sterminio di chi osava avere opinioni differenti. Ma perché? Per motivi di magna magna: i prodromi di ciò si erano già avuti col precedente papa Innocenzo 3° (1198-1216), che già nell’ottobre del 1208 aveva lanciato l’appello alla “missione” contro gli Albigesi, seguaci del movimento cosiddetto eretico dei Catari nel Sud della Francia, che propugnavano un ideale di povertà in opposizione alla chiesa romana; il vero obiettivo del papa era, appunto – lo sanno tutti – quello di impadronirsi delle loro terre e prebende. La crociata fu guidata dall’abate Arnaldo Amaury di Citeaux, coadiuvato da due vescovi e dai cavalieri dell’Ordine dello Spirito Santo, istituito dallo stesso papa nel 1198 in collegamento con l’ospedale romano di Santo Spirito. L’ordine cavalleresco, che agli occhi del popolo, doveva sovrintendere all’ospedale “per la cura dei bambini abbandonati, degli orfani e degli illegittimi, dando loro vitto, alloggio e una modesta istruzione”, aveva – guarda un po’ – anche una struttura militare. Unito al confratello francese Ordine di Santo Spirito di Montpellier, sovrintese con inaudita ferocia alla carneficina di 20.000 Catari a Béziers, alla quale fece seguito un’autentica caccia all’uomo fino allo sterminio totale a Monségur nel 1244.
A fronte delle crociate il grande evento di un ritorno alle origini pure della chiesa romana si ebbe con l’istituzione dell’Ordine dei Francescani. Approvato da Innocenzo 3° nel 1210, tale ordine esaltava la rinuncia ad ogni proprietà, il divieto di accettare denaro e la pratica delle opere di carità, che Francesco d’Assisi mise in risalto nella sua stessa vita.
Più o meno contemporaneamente era nato anche l’Ordine dei Domenicani, riconosciuto da Onorio III nel 1216 e sorto esclusivamente per contrastare l’“eresia” albigese nella sua prima fase. L’insegnamento della dottrina e la predicazione attuata dal fondatore Domenico di Guzmàn, unito all’osservanza della povertà evangelica, costituiscono la base di tale ordine di frati, che finirà comunque per avere una potenza economica e politica in seno alla chiesa romana, principalmente all’interno del TRIBUNALE D’INQUISIZIONE, roccaforte della “santa casta” del vaticano & C.
Quanto segue sui manichei è tratto direttamente dalla grandiosa opera di Henri-Charles Puech “Gnosticismo e manicheismo” in “Storia delle religioni a cura di Henri-Charles Puech”, vol. 8, pp.169-174 (Ed. Laterza, Roma-Bari 1977).
VITA DI MANI E ORIGINE DELLA CHIESA MANICHEA
Il manicheismo deriva il proprio nome da quello del suo fondatore, Mani (Manete) o, anche ManIchaios, Manichaeus, vale a dire, originariamente e in siriaco, Mani-ayyia, «Mani il Vivente». Come attualmente siamo in grado di precisare, Mani nacque il 14 aprile 216 (8 Nisan 527 dell’èra seleucida) a Babilonia, in una località vicina a Seleucia-Ctesifonte. Di qui l’epiteto di al-Babiliyu («il Babilonese») che gli fu attribuito in arabo e i titoli che egli si conferì da solo, o che gli vennero conferiti, di “Messaggero di Dio venuto in Babilonia”, di “Medico proveniente dal Paese di Babele”. Sembra che egli appartenesse, se non da parte di padre (Patik, Pattichios, Patecio) lui stesso originario di Hamadàn (l’antica Ecbatana), almeno da parte materna (Maryam?), a una famiglia principesca, imparentata con la dinastia degli Arsacidi, i sovrani parti allora regnanti, la cui supremazia sarebbe tuttavia crollata nove anni dopo sotto i colpi del persiano Ardashir, lasciando il posto alla dinastia sassanide. Allorché Mani ebbe raggiunto il suo quarto anno di vita, Patik lo condusse con sé in Mesenia (a sud di Babilonia), dove egli si era ritirato in seguito a un comando ripetuto tre volte da una voce misteriosa in un tempio di Ctesifonte e che gli ordinava di astenersi dal vino, dalla carne e da ogni rapporto sessuale; qui il padre si era aggregato ai seguaci di una setta di cosiddetti haptistai (“battezzatori”, “battisti”) secondo il termine greco e copto, chiamati al-mugtasila (“coloro che si purificano, che lavano se stessi”) dagli autori arabi, m’naqq’de (“coloro che purificano” o “sono purificati”) e hall heare (“vesti bianche”) nella tradizione siriaca; per le conferme fornite dal Codice di Ossirinico, questa setta può essere identificata non con i mandei (come in genere si è pensato finora), ma con gli elkasaiti, ossia gli adepti di una dottrina diffusa, a seguito di una visione manifestatasi attorno all’anno 100 nel “paese dei Parti”, dal profeta Elkasai (Alkhasaios). Una precisazione del genere è di fondamentale importanza, dal momento che si tratta di giudeo-cristiani, di cristiani di un tipo particolare i quali, mentre combinano con tradizioni e osservanze ebraiche certe teorie dall’andamento più o meno “gnostico”, tuttavia si richiamavano all’autorità e ai “comandamenti” di Gesù. Non parrebbe più lecito contestare, o considerare tardivo e secondario, il ruolo giuocato dall’elemento cristiano nella formazione del manicheismo. Dal momento che è certo che Mani visse per ventun anni (dal 219-20 al 240) in seno a una comunità di questa natura, vi crebbe e formò il proprio pensiero nonché la sua stessa vocazione, appare ormai chiaro come, per questo tramite, il cristianesimo – perlomeno una certa immagine del Cristo e dell’insegnamento evangelico – abbia fin dall’inizio esercitato su di lui e sulla elaborazione del suo futuro messaggio, un’influenza decisiva o, comunque, profonda. Mani, del resto, non mancò di far proprie numerose concezioni tratte dall’elkasaismo.
Tuttavia, l’atteggiamento da lui assunto nei confronti dei suoi primi correligionari subì probabilmente profonde modifiche, fino a capovolgersi completamente. Se dapprima, e per un lungo periodo, egli diede prova nei loro confronti di una docilità e di una fedeltà almeno apparenti, egli arrivò però ad esprimere il suo disaccordo e a criticare due delle loro principali pratiche: l’uso delle abluzioni quotidiane e ripetute più volte; il divieto relativo al pane, alla frutta, ai legumi che vengono da fuori, che sono d’origine profana. I suoi rapporti con gli altri membri della setta si guastarono. Qualcuno lo considerò un ispirato, ma gli altri, la maggior parte, lo giudicarono un apostata e un pericoloso innovatore. La tensione crebbe e sfocerà nella rottura che, per la tradizione, è messa in moto e accelerata da due avvenimenti: a dodici anni, o più precisamente il 1° aprile 228 (8 Nisan 539 sel.), Mani avrebbe ricevuto dall’angelo al-Tawm (“il Compagno”, “il Gemello”), dal suo alter ego celeste o, il che è lo stesso, dallo Spirito Santo, dal Paraclito, l’ordine di abbandonare la comunità, salvo differire la partenza in considerazione della sua giovane età; poi, di nuovo, a ventiquattro anni, il 19 aprile 240 (8 Nisan 551 sel.), a pochi giorni di distanza dall’incoronazione di Shapur in qualità di coreggente di Ardashir (1 Nisan 551 = 12 aprile 240), egli avrebbe ricevuto l’ordine di manifestarsi ormai pubblicamente e di proclamare la sua dottrina. La seconda di queste “annunciazioni” segna ufficialmente l’avvento della nuova Religione: Mani, nel quale si riteneva si fossero ormai incarnati lo Spirito Santo e la scienza assoluta, venne confermato nella sua veste e nella sua vocazione di “Apostolo”, di “Illuminatore” supremo inviato da Dio; giunse finalmente per lui il momento di entrare in scena, di divulgare e di diffondere il messaggio di Speranza e di Salvezza rivelatogli in tutta la sua pienezza e in tutta la sua verità. Invano, tuttavia, Mani comincia con il tentativo di operare conversioni nella cerchia intorno a sé. Condotto dinnanzi a un consesso di “Superiori” e di “Sacerdoti”, accusato di deviazione rispetto alla legge in direzione dell’“ellenismo”, del “mondo”, il giovane Profeta viene ben presto escluso dalla comunità e si separa da essa definitivamente. Egli se ne va, accompagnato dal padre e da due soli seguaci. Ai suoi occhi, il battismo sarà ormai solamente una falsa religione
alimentata dallo “Spirito d’Errore”.
Mani si reca dapprima a Ctesifonte, senza quasi fermarvisi, dal momento che intraprende subito un primo viaggio di missione nel nord-ovest della penisola indiana, nel Turan e nel Makran (l’attuale Belucistan). Rientra due anni dopo per mare, dopo la morte di Ardashir e all’inizio del regno di Shapur 1° (probabilmente, nella primavera del 242). Un colloquio tra Mani e il nuovo Re dei Re, procurato dal fratello più giovane del Re stesso, Peroz, sortisce esito favorevole: il Re concede il permesso di predicare liberamente la religione appena sorta nell’Impero iranico, sotto la protezione delle autorità locali. Più ancora, sembra che – dietro l’esempio di alcuni membri della sua famiglia – Shapur sia stato attratto dalla dottrina di Mani o che, in ogni caso, sia sempre stato ben disposto nei suoi confronti. Sarebbe anzi addirittura arrivato ad ammetterlo nel suo seguito in occasione di una delle spedizioni contro Roma. Sotto il suo regno, del resto, Mani si impegna attivamente nell’opera di propaganda. Egli percorre in tutte le direzioni l’intera distesa dell’Impero, predicando “la Buona Novella” (vangelo) nella Perside, nel territorio dei Pari, nell’Adiabene e nel Beth ‘Arbaiye, la zona di frontiera che si estendeva intorno a Nisibi. Contemporaneamente, organizza l’invio di numerose missioni all’interno del paese e fuori: ad esempio, in Egitto, nella Margiana, nella Battriana, a Karka di Beth Slokh a sud del Piccolo Zah.
Dopo la morte di Shapur e il breve regno del figlio e successore Hormizd 1° (270-271? 272-273? 273-274?) la situazione si capovolge. È ora sul trono Bahràm 1°, un altro dei figli di Shapur. Con lui, prevale il mazdeismo. Il corpo sacerdotale dei Magi, che è in ascesa crescente e che tende a strutturarsi in casta gerarchicamente ordinata e privilegiata, esercita sul potere politico un’influenza sempre più determinante; l’impresa innovatrice di Mani si infrangerà contro l’intolleranza gelosa dell’ortodossia ufficiale, coalizzata con il partito dei “Maggiorenti” e guidata dal magupat Kartir (Kirdér), un anziano herpat (semplice “dottore della Legge”) destinato ad essere promosso entro breve al grado supremo di “Gran mobad” e fanatico persecutore delle eresie e dei culti stranieri. Un ultimo viaggio dell’Apostolo in territorio babilonese dura poco. Un ostacolo imprevisto – sicuramente un ordine poliziesco – costringe Mani a ritornare sui suoi passi e a recarsi – in compagnia di Bat, un piccolo re locale da lui convertito – per fiume e per terra nella città di Gundeshahpuhur (Belapat), nella Sussiana, dove arriva di domenica. Si presenta quasi immediatamente a Bahram in persona. L’accoglienza riservatagli dal re, reduce da una partita di caccia e di ritorno da un festino, è delle peggiori: i rimproveri si accumulano, il tono sale e il contrasto ben presto si fa tempestoso. Accusato del delitto di lesa religione, Mani è condannato e trascinato in prigione. Hanno allora inizio – è mercoledì – i ventisei giorni di drammatiche prove che costituiscono la “Passione” dell’“Illuminatore” o – per usare il termine con cui la designano i manichei e che essi applicano ad ogni martire per la Fede, quale che sia la forma del martirio – la sua “Crocifissione” (staurosis, dargirdeh). In cella, Mani è gravato di pesanti catene di ferro che gli impediscono qualsiasi movimento: tre alle mani, tre ai piedi, una al collo. Sempre più esausto, ma dopo aver trovato la forza di indirizzare alla sua chiesa un ultimo messaggio di addio affidato a qualche discepolo presente alla sua agonia, Mani muore di lunedì, nell’ora undicesima. Egli aveva, a quel che si dice, circa sessant’anni. Il suo cadavere venne decapitato e la testa fu esposta a una delle porte della città. Sembra che il resto del corpo sia stato mutilato e disperso, non senza che i fedeli ne raccogliessero prima qualche parte, sottratta e conservata con altre reliquie. Secondo le versioni polemiche rapidamente formatesi attorno all’episodio ed arricchitesi ben presto di dettagli sempre più atroci, il cadavere sarebbe stato tagliato in due, o – a meno che non si trattasse addirittura di Mani vivo – scorticato con punte di canna. La pelle, rigonfiata d’aria, di paglia o altro, si sarebbe a lungo agitata al vento appesa a una delle porte di Blapat o da qualche altra parte. È difficile stabilire con assoluta esattezza la cronologia di questi ultimi avvenimenti. Non che manchino dati precisi: ma quelli di cui disponiamo sono di interpretazione piuttosto delicata. Vanno aggiunti l’incertezza e il disaccordo circa In data in cui si è concluso il regno di Bahram 1° (settembre 274? 276? 277?). Sono state proposte varie soluzioni, tra le quali si oscilla ancora: può benissimo essere legittimo collocare la “Crocifissione” tra il 19 gennaio e il 14 febbraio 276 (così H. H. Schaeder) o, piuttosto – tenuto conto che le date trasmesse dalla tradizione manichea dovevano essere originariamente 8 Shabat e 4 Adar e che questi giorni corrispondevano rispettivamente uno a un mercoledì, l’altro a un lunedì – è possibile che essa si collochi tra il 14 febbraio e il 2 marzo 274 (W. B. Henning) come fra il 31 gennaio e il 26 febbraio 277 (S. H. Taqizadeh).
La persecuzione che seguì dopo la morte di Mani lasciò la comunità disorientata per qualche tempo. Alla fine di un interregno di cinque o sei anni, nel quale due fazioni, una guidata da Sisinnio, l’altra da Gabriabio – si disputano la direzione della chiesa, Sisinnio diventa capo supremo della setta e subisce nel 291-292 il martirio, nel corso di una nuova persecuzione ordinata da Bahram 2° (276?-293). Il successore di Sisinnio, Innaio, riuscirà ad ottenere dal potere regio un regime di tolleranza che, grazie all’intervento di ‘Amr, re di Hira, si protrasse sotto il regno di Narsete (293-302), per lasciare di nuovo il posto, ai tempi di Hormizd 2°, ad altre persecuzioni.
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Ora, a proposito di criminalità religiosa, bisognerebbe chiedersi quale ruolo abbia avuto Agostino (fatto poi santo dalla chiesa romana) in tutta questa vicenda. Raccogliendo appunti dall’opera di Henri-Charles Puech, emergono fatti interessanti. Incomincio col presentarvi la storia della chiesa manichea redatta dal Puech.
STORIA DELLA CHIESA MANICHEA (Henri-Charles Puech)
Non è possibile capire bene quella che è stata in tutta la sua continuità la storia del manicheismo, se non si tiene conto del carattere e della portata che Mani ha inteso assegnare alla propria Rivelazione, nonché del fine e del ruolo che, di conseguenza, egli ha affidato alla chiesa da lui fondata, alla “Santa Chiesa”, come appunto si chiama. Ampliando e riadattando a suo piacere una concezione verosimilmente desunta dall’elkasaismo, Mani si considera e si dichiara l’ultimo di una lunga serie di Messaggeri celesti inviati l’uno dopo l’altro all’umanità: tra questi, partendo da Adamo, Zoroastro, il Buddha e Gesù sono i principali. A questo titolo, egli non pretende soltanto di essere l’incarnazione più recente del “Vero Profeta», ma «il Sigillo dei Profeti», l’Inviato, il Rivelatore supremo. Supremo, in quanto egli costituisce l’ultimo anello di questa catena di “Apostoli” apparsi uno dopo l’altro nel corso del tempo e perché dopo il suo avvento il mondo, già entrato nella dodicesima ed ultima fase della sua esistenza, non ha che da convertirsi e sparire. Supremo, anche perché egli si identifica con l’Illuminatore perfetto o, in termini cristiani, con il Paraclito del quale il Cristo ha promesso l’invio. Mentre gli insegnamenti dei suoi predecessori erano parziali, velati, oscuri e sono stati tra l’altro compresi male, travisati e quindi traditi dai discepoli che li hanno trascritti e codificati, la Conoscenza della quale Mani svela pienamente il segreto e della quale ha oltretutto cura di fissare egli stesso il contenuto per iscritto, è ritenuta l’espressione chiara, immediata, totale della Verità, della Gnosi completa, del Sapere assoluto. Di conseguenza, oltre che racchiudere in sé l’essenziale delle precedenti Rivelazioni e fornirne la chiave, il messaggio recato dall’“Inviato della Luce” ha significato e valore universale e la religione di cui costituisce il fondamento e che ha il compito di assicurarne la conservazione e la trasmissione non può che essere essa stessa ecumenica. Quanto meno, Mani ritiene che la sua religione sia destinata a soppiantare tutte le altre prima della fine dei tempi e la ritiene adeguata, in forza della sua evidenza e della sua intrinseca certezza, a conquistare a sé il mondo intero, finendo per dominarlo e per diventarne l’unica religione. Proprio perché non contemplavano se non una verità incompleta, le chiese istituite da Zoroastro in Iran, da Buddha in Oriente, da Gesù in Occidente, non sono riuscite è la constatazione di Mani ad impiantarsi se non qua o là, in questa o quella diversa singola regione. Depositaria della Verità integrale, la chiesa di Mani non deve, al contrario, conoscere alcun limite alla propria diffusione:
“La mia speranza, dichiara Mani, andrà verso l’Occidente e andrà anche verso l’Oriente e sarà udita la voce del suo messaggio in tutte le lingue e sarà annunciata in tutte le città. Su questo punto, la mia chiesa è superiore a tutte le chiese che l’hanno preceduta. Queste chiese infatti sorgevano in paesi particolari e in particolari città. La mia chiesa si diffonderà in tutte le città, il mio Vangelo toccherà ogni paese”.
Universale in linea di diritto e di vocazione, anche in linea di fatto, la chiesa manichea è dunque votata, fin dall’inizio, a un ideale e a un compito di missione. La propaganda, la conversione dell’universo costituiscono un dovere costante. Infatti, prendendo per questo aspetto come per molti altri a modello san Paolo, Mani volle essere prima di ogni altra cosa – e lo è stato, con i suoi continui viaggi, servitore della Religione, l’Apostolo itinerante che lanciava nel mondo l’“Appello» di Vita, il grido e «la buona novella” della Salvezza, quell’invito al Risveglio e alla Liberazione che i migliori dei suoi discepoli dovevano avere a cuore di riprendere e di riproporre in tutti i luoghi e in tutti i tempi. Egli prescrive ai suoi più fedeli discepoli, a ciascuno dei suoi Eletti, come principio, di essere in perpetuo tra la gente, predicando la dottrina e guidando gli uomini nella verità.
Certo, le missioni che in seguito la chiesa manichea non ha mancato di moltiplicare nei limiti delle sue possibilità e di estendere, e la cui storia si confonde perlopiù con la propria, non sono riuscite a svolgere il programma grandioso assegnato ad esse. Tuttavia, l’espansione del manicheismo è stata ugualmente considerevole, sia geograficamente, sia nel corso del tempo; per circa mille e duecento anni, dal III al XV secolo, la religione di Mani ha esteso le sue conquiste, conservandosi o suscitando echi in un’ampia fetta del globo, dalle rive europee dell’Atlantico, all’estremità asiatica del Pacifico.
Le missioni al tempo di Mani
Gli avvii di questo vasto movimento di apostolato risalgono alle origini stesse del manicheismo. Fin dal 240, come si è visto, Mani si era recato per mare nelle regioni adiacenti alla riva destra del basso Indo e vi aveva in particolare convertito alla sua fede un sovrano locale, il quale vede in lui il “nuovo Buddha”. Primo successo, e così promettente che, appena tornato di là alla città di Rcv-Ardaxsihr, Mani spedisce in India stando alla testimonianza di un frammento di Turfan pubblicato recentissimamente due nuovi missionari, suo padre Patik e “il fratello Giovanni” (Hanni), che egli sollecita ad imbarcarsi per il porto di Deb. Le tradizioni molto più tarde, riferite dagli autori musulmani che lo fanno soggiornare in India, nel Tibet, in Cina, contengono sicuramente tutta una serie di elementi fiabeschi: esse probabilmente conservano, smisuratamente ingrandito o frainteso, il ricordo di altri viaggi ad est dell’Impero persiano. Secondo il capitolo I dei Kephalaia, l’Apostolo avrebbe portato la sua predicazione ai quattro angoli dell’Impero, indicando così in anticipo le direzioni lungo le quali avrebbe dovuto impegnarsi l’espansione di una chiesa chiamata ad estendersi fuori della Babilonia, sua culla e suo focolare centrale, e ad irradiarsi in tutte le direzioni. Altre notizie, troppo schematiche per essere del tutto certe e che presentano differenze nei dettagli, si riferiscono a Mani che assegna a tre dei suoi diretti discepoli Adda, Tommaso e Hermas l’evangelizzazione dell’Oriente (o della “Scizia”), dell’Egitto e della Siria. L’esistenza di missioni organizzate dallo stesso Maestro mentre era in vita è, in ogni caso, confermata da testimonianze degne di fede: la missione di Adda e di Patik in Egitto, compiuta tra il 244 e il 261; quella dello stesso Adda e di Abazakhya nella provincia di Beth Garmai, nel 261-262; quella, infine, di Mar Ammò, inviato in compagnia di un principe arsacide, Ardavan, da Holwan ad Abharshahr e a Merw, nella zona dei Corasmi.
L’espansione verso ovest
L’ultima di queste missioni aveva dunque raggiunto l’estremità orientale del territorio sassanide, spingendosi fino all’Oxus (l’attuale Amu-Darya). Sembra, però, che il principale sforzo della giovane chiesa per diffondersi oltre i confini dell’Impero si sia inizialmente diretto verso l’Occidente, dove c’era motivo di sperare di trovare presso ambienti cristiani un più facile accesso. Infatti, il manicheismo si è infiltrato rapidamente nella parte romana della Mesopotamia, per raggiungere poi la Siria, l’Arabia settentrionale e l’Egitto. Intorno alla metà del III secolo, alcuni missionari, sbarcati sulle rive del Mar Rosso, penetrano nella Tebaide e stabiliscono il loro centro di propaganda a Hypsela, a sette chilometri a sud-est di Licopoli, la moderna Assiut, dove, nello stesso periodo, il neoplatonico Alessandro di Licopoli è testimone delle successive venute di Papos (Papà), Tommaso ed altri discepoli di Mani. Costoro operano conversioni fin dentro Alessandria e il successo riportato dallo loro predicazione e dalla loro propaganda è così vivo che finisce ben presto per provocare violenti contrasti: le autorità ecclesiastiche, i filosofi, si preoccupano e replicano; il 31 marzo 297, forse in seguito ad agitazioni politiche alle quali avevano preso parte alcuni manichei, l’imperatore Diocleziano invia da Alessandria, al proconsole d’Africa Giuliano, un editto che stigmatizza la perniciosa e mostruosa novità introdotta dalla missione persiana nell’Impero romano e condanna a morte e alla confisca dei beni i capi della setta. Il manicheismo, però, aveva preso troppo piede nel paese per soccombere sotto simili colpi: molti cristiani egiziani non potevano non essere sensibili a una dottrina che presentava tante affinità con la Gnosi e con l’encratismo, per cui la “Santa Chiesa” – come prova, tra le altre testimonianze, la considerevole mole degli scritti manichei venuti alla luce presso Medinet Madi e tradotti in copto o adattati in questa lingua nella prima metà del IV secolo ha continuato ancora a lungo ad affermare la propria presenza e ad esercitare la propria attività lungo tutta la vallata del Nilo. Dall’Egitto, la religione manichea deve esser facilmente passata nell’Africa settentrionale, dove non è escluso sia stata introdotta da uno dei dodici apostoli di Mani, Adimanto (Addas).
L’adesione al manicheismo da parte di sant’Agostino, “uditore” della setta per circa nove anni (dal 373 al 382), le dispute da lui più tardi sostenute con Fausto, Fortunato, Felice, le confutazioni prodigate contro il dogma dualista e le opinioni dei suoi antichi correligionari, insieme a molti altri fatti, testimoniano dell’importanza che il manicheismo aveva raggiunto alla fine del IV secolo in quelle regioni, soprattutto a Cartagine, dove, mentre regredirà dovunque in Occidente, si manterrà anche sotto la dominazione vandala. Tra il 754 e il 755, la Chiesa della Luce avrà come capo supremo, come imam, un africano: Abù Hilal al-Dayhuri. Sant’Agostino e i suoi compatrioti hanno forse conosciuto un manicheismo di un tipo particolare, modificato e piegato in senso cristiano? Vi è modo di distinguere un “manicheismo numida”? Questo sarebbe eccessivo. La nuova religione penetra molto presto anche in Palestina dove, verso il 274, un tale Akuas o Zakuas la divulga dalla Mesopotamia a Eleutheropolis. Essa si diffonde rapidamente all’interno dell’Asia Minore; né tarda molto a raggiungere il mondo arabo: ha già un protettore, alla fine del III secolo, nella persona dello sceicco di Hira, Amr ibn Adi (l’Amaro dei documenti manichei in copto), vassallo di Bahriim II e di Narsete. La troviamo osteggiata in Armenia nel V secolo, ma non v’è dubbio che vi fosse stata introdotta molto prima. Roma viene raggiunta ai tempi di papa Milziade (311-314) e un’iscrizione di Salona, dedicata a una “vergine manichea” originaria della Lidia, dimostra che fin dall’inizio del IV secolo anche la Dalmazia era stata oggetto di questa instancabile propaganda. Il manicheismo è giunto nel sud della Gallia sicuramente attraverso l’Italia. Di lì, o dall’Africa settentrionale, è passato nella penisola spagnola. Ma i testi che ne segnalano la presenza in Aquitania e nelle cinque province iberiche durante la seconda metà del IV secolo rischiano fortemente di far confusione tra manicheismo e priscillianesimo.
È molto difficile, d’altra parte, seguire attraverso l’abbondantissima letteratura dei controversisti, i molteplici editti imperiali di proscrizione, i rari particolari concreti forniti dalle cronache, le biografie, le lettere di questo o quel vescovo le tappe della diffusione del manicheismo in Occidente. È tuttavia certo che il IV secolo segna l’apogeo della sua espansione nell’Impero romano: dovunque, esso viene combattuto e incalzato, il che vuol dire che è presente dovunque e fa paura. Il declino, tuttavia, si annuncia rapido. Perseguitata dalla Chiesa e dallo Stato, oggetto di leggi repressive rinnovate incessantemente e accentuate, l’eresia manichea sembra scomparire quasi completamente dall’Europa occidentale verso la fine del V secolo e, nel corso del secolo successivo, dalle zone orientali dell’Impero. Le energiche misure prese nel 445 per iniziativa di papa Leone Magno e che portano ad espellere da Roma e dall’Italia le sette dualiste, alcuni membri delle quali tentano invano di trovare rifugio in Spagna, la tremenda legge che dispone la pena capitale contro gli appartenenti alla setta, promulgata nel 527 dagli imperatori Giustino e Giustiniano e che, implacabilmente, è messa in esecuzione dalle autorità civili ed ecclesiastiche, avviano un po’ dovunque l’agonia del movimento. Se, nonostante tutto ciò, il manicheismo è riuscito a sopravvivere in altra guisa che come un fantasma ereticale, ciò è potuto avvenire, sporadicamente e misteriosamente, in seno a piccoli raggruppamenti isolati e in forme segrete e larvate; a meno che come si è supposto esso non abbia più o meno subito delle trasformazioni, o che, volgarizzato, ridotto a qualche elementare trattato, non abbia da allora esercitato se non un’influenza vaga e frammentaria. Tuttavia, si tratti di “criptomanicheismo”, di “neomanicheismo” o di un “manicheismo popolare», conviene non nascondersi il fatto che simili denominazioni implicano ipotesi in larga misura incontrollabili.
Il manicheismo in Iran e in Estremo Oriente
Ad Oriente, la religione manichea ha conosciuto una vicenda altrettanto drammatica, ma diversa. Quando Mani era ancora in vita, questa si era diffusa nelle province orientali dell’impero persiano. Secondo al-Nadim, la cui testimonianza non è però esente da anacronismi, la persecuzione che ha provocato e seguito la morte di Mani avrebbe anche spinto un certo numero di aderenti alla nuova fede a trasferirsi nella zona oltre l’Oxus. Sembra tuttavia che, fino alla caduta dello Stato sassanide (651), le missioni non avessero né sorpassato il nord dell’Amu-Darya, né valicato il massiccio del Pamir. La Corasmia costituiva, però, un saldo avanposto, fortemente organizzato attorno ai due grandi centri di Abharshahr e di Merw; sembra che qui, verso la fine del V secolo, fosse prevalso, per impulso di Mar Shad Ormidz, il partito rigorista di coloro che professavano la vera religione (dèn) (i dènàwaryya degli autori musulmani; in cinese, tien-na-wu), il cui «puritanesimo» provocherà un prolungato scisma della chiesa madre di Babilonia e ai quali spettava il compito di convertire l’Asia centrale e la Cina.
Nel cuore stesso dell’Iran, il manicheismo, la sede del cui papato è a Seleucia-Ctesifonte, riesce a conservarsi, se non a svilupparsi, durante il regno dei Sassanidi, malgrado le persecuzioni di cui è oggetto, specialmente sotto Bahram 1° e Shapùr 2°, approfittando dei periodi di relativa tolleranza che le fanno cessare. Esso esercita anche un’influenza, nell’ultimo quarto del V secolo, sulla formazione del movimento, religioso e rivoluzionario insieme, dei mazdakiti; alcuni dei suoi adepti pare addirittura abbiano svolto sporadicamente un ruolo nelle persecuzioni di comunità cristiane. All’inizio del VII secolo, il manicheismo vede persino crescere i suoi seguaci per l’afflusso dei fedeli che, cacciati dall’Impero bizantino, si rifugiano in Persia. Ma esso resta ugualmente esposto alla tenace ostilità del mazdeismo ufficiale, che, anche molto dopo aver cominciato a decadere, non cesserà di denunciare e respingere il manicheismo, come testimoniano, tra l’altro, per il IX-X secolo, il Dénkart e lo Skand gumanik vicar.
Anziché infliggergli un colpo fatale, la dominazione araba ha invece provocato l’effetto di una rinascita momentanea del manicheismo in Babilonia e il ritorno in Iran e nelle regioni vicine di alcuni gruppi di emigrati. Un’abbondante attività letteraria e gli stessi dissensi che agitarono e divisero allora la “Santa Chiesa”, le controversie dottrinali e soprattutto disciplinari sottolineate da scismi più o meno stabili, che, prolungando la crisi provocata dai dènàwaryya e per un poco risolta sotto il pontificato di Mihr ( 724-7 38 ), oppongono la fazione dei miqlasiyya (discepoli di Miqlas) al partito dei mihriyya: tutto ciò sta a dimostrare, a suo modo, che l’VIII secolo è stato un periodo fiorente per i manichei mesopotamici, grazie al regime di tolleranza e – sotto al-Walìd 2° (743-744) – al favore del quale essi hanno goduto durante il califfato degli Ommiadi. L’ascesa degli Abbasidi, nel 775, provoca un rovesciamento della situazione. AI-Mahd (775-785) inizia una politica di controversie teologiche e di persecuzioni sanguinose, che i suoi successori applicheranno con più o meno vigore e che, sotto al-Moqtadir (908-932), costringe i manichei a cercare rifugio in Corasmia. La dispersione è così massiccia che al-Nadìm può permettersi di affermare che, tra il 945-967 e il 987-988, data di composizione del suo Fihrist al-Ulùm (Catalogo delle scienze), il numero degli adepti di Mani era sceso a Bagdad da trecento a cinque. Lo stesso autore, la cui testimonianza è confermata dal Hudùd al-Alam (scritto nel 982) e, qualche anno dopo, da al-Biruni, segnala la presenza in quel periodo di raggruppamenti di manichei chiamati ajari (certamente: acàri = acarìk, dal sanscrito acarya, espressione derivata dalla terminologia buddhista) alla periferia di Samarcanda (dove si dovette trasferire la sede del papato, dell’imam, troppo esposta a Babilonia), nei villaggi della Sogdiana e soprattutto a Navikat.
Dopo l’ultimo terzo del VII secolo, però, un nuovo sbocco si era aperto all’espansione della Chiesa della Luce verso est, verso l’Estremo Oriente. Secondo un frammento di testo proveniente dall’Asia centrale, il manicheismo avrebbe fatto la sua comparsa in Cina esattamente nel 675. La conquista del Turkestan orientale da parte dei Cinesi, la riapertura della grande via carovaniera di Kasgar-Kuca-Qarasahr, coincidono in ogni caso con il primo arrivo alla corte di Cina di un dignitario manicheo (694). Nel 719, un altro dignitario, versato in astronomia, è invitato presso l’imperatore dal viceré del Tokharestan, Tes il guercio. Una ventina d’anni più tardi, il 16 luglio 731 per l’esattezza, per ordine dell’imperatore Hiuen-tsong, viene composto da un fu-to-tan (un vescovo manicheo) il Catechismo della religione del Buddha della Luce, Mani (Mo-ni kuang-fo kio fa yi lio), il cui testo è stato ritrovato nelle grotte di Tuen-huang: una specie di compendio, destinato ad informare le autorità sui dogmi, le Scritture, la disciplina della setta, ma anche a farla accettare ufficialmente; mediante un’accorta mescolanza di taoismo, di buddhismo e di manicheismo autentico e presentando Lao Tse e Sakyamuni come precursori o incarnazioni precedenti di Mani. Infatti, l’anno seguente (732), un editto concede alla dottrina di Mo-mo-ni (Mar Mani), pur respingendone i principi, la libertà di culto. La religione della Luce (ming-kiao) conoscerà da allora una fortuna straordinaria. Sembra che già intorno al 700 alcuni missionari sogdiani avessero iniziato l’evangelizzazione dell’Asia centrale, in particolare a est di Kasgar. Ma le cose vanno ancor meglio più tardi. Un gruppo di Turchi settentrionali, gli Uiguri, fondano, a partire dal 745, un vasto regno, il cui centro era sulle rive dell’Orkhon, nella Mongolia settentrionale, e si estendeva dall’Ili al fiume Giallo. Uno dei sovrani di questo gruppo certamente Bògù qagan si impadronisce il 20 novembre 762 di Lo-yang, la mette a sacco ma incontra qui alcuni religiosi manichei che lo convertono alla loro fede. Questa conversione (763) fa del manicheismo la religione ufficiale dello Stato degli Uiguri e la protezione dei qagan costringe l’imperatore cinese ad accordare ai manichei per due volte nel 768 e nel 771 l’autorizzazione a istituire dei «templi» in diverse località. Per due volte ugualmente nell’806 e nell’817, dei manichei vengono accreditati come ambasciatori presso la corte di Cina. Questa religione dualistica estende la propria affermazione, con punte che si spingono persino in un periodo imprecisato, in realtà, e in base a un’ipotesi recente in Siberia.
Anche qui, però, il trionfo fu di assai breve durata. La distruzione del regno degli Uiguri da parte dei Kirghisi nell’840 l’interrompe bruscamente. Indeboliti, dispersi, i manichei sopravvivono nei principati uiguri formatisi verso la metà del IX secolo ad est, nella regione di Kan-chu nel Kansu, a Occidente, nella zona di Qoco (Qara-khodjo), a est di Turfan e ancora più a sud nell’oasi di Khotan. Le loro comunità, che avevano là “templi” e «monasteri”, sono ricordate dagli autori musulmani, specie quando parlano dei Toquz-Oghuz, ossia degli “[Uiguri dei] nuovi clan”. Da queste comunità, e in particolare da quella di Qoco, provengono la maggior parte dei testi e delle pitture ritrovate alla fine del XIX secolo e all’inizio del nostro da varie spedizioni scientifiche, russe e tedesche in particolare. È probabile che il manicheismo nel Turkestan cinese si sia conservato fino all’inizio del XIII secolo, allorché l’invasione mongola con alla testa Gengis Khan deve avergli inflitto un colpo fatale.
Il manicheismo conserverà una certa vitalità in Cina fino al XIV secolo. Ma, all’indomani stesso del crollo della potenza degli Uiguri, l’imperatore Wu-song, nell’843, aveva bandito e perseguitato nel Regno di Mezzo il manicheismo. I «templi” vennero chiusi, i loro arredi e i loro beni inventariati e confiscati, le immagini e i libri che contenevano distrutti. I religiosi o gli “Eletti” che sfuggirono ai massacri dovettero andarsene in esilio. Se la religione di Mani sopravvisse a questa persecuzione, ciò avvenne grazie a una certa copertura del taoismo e del buddhismo, grazie al fatto di essersi mimetizzata all’interno di certe società segrete, le cui riunioni notturne e misteriose si prestavano alle accuse peggiori. Se ne ritrova traccia nel 920, anno in cui i manichei prendono parte a un’agitazione politica; verso il 1019, allorché i manichei tentano di introdurre surrettiziamente gli scritti del loro Maestro nel Canone taoista. Dall’XI al XIII secolo, relegati prevalentemente nella regione di Fuchow, nel Fukien, ricompaiono un’ultima volta alla fine del XIV secolo come adepti della “Religione del Venerabile della Luce», bandita da un editto imperiale del 1370, confermato dal Codice dei Ming. È probabile che i manichei siano sopravvissuti oltre quella data nelle province orientali della Cina, in particolare nella zona del basso Yang-tse.
La porno-teologia di Sant’Agostino
Quanto segue riguarda i misfatti di Agostino, che sembrano quelli di un vero criminale. Inizio con l’idea del “peccato originale”.
Sull’agostiniano peccato originale c’è da dire che la deficienza di epistemologia, che andò via via aumentando in modo esponenziale, grazie al nominalismo “scientifico”, condusse sempre più alla porno-teologia, che oggi è una realtà tangibile (inserisco questo link https://lanuovabq.it/it/il-trionfo-della-pornoteologia come dato di fatto, riservandomi un punto di vista opposto a quello di Riccardo Cascioli sulla dottrina sociale della chiesa cattolica. Benedetto XVI, nel suo ultimo discorso prima dell’elezione a Papa, rilanciò la seguente ipocrita proposta ai non credenti: “Vivere come se Dio ci fosse […]. Così nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgentemente bisogno”. Cascioli la accetta come sacrosanta. Io no. “Vivere come se” significa FINGERE. Fingere “pro bono pacis” è accettabile entro il diritto di epicheia cattolica ma non cristiana.
Agostino percepiva il dualismo come precondizione al pensare, sostituendo quel suo oggetto di percezione col relativo suo pregiudizio (soggettiva rappresentazione del dualismo) e approdando così alla pseudo-unità (vecchio monismo, riferibile non solo agli angeli ribelli fino a Caino ma anche ai nuovi angeli debosciati da Agostino fino a Kant, Einstein e Bergoglio, già spiritualmente morti) dell’unilateralità, dell’uniformità e della piattezza, vale a dire di una sorta di monoideismo solipsista ed assoluto, tipico dei sedicenti propagatori di socialità, che in sostanza ne furono e sono i distruttori, mediante il solito esclusivismo dogmatico.
L’idea che gli uomini siano, secondo Dio, peccatori per il fatto stesso di essere uomini, come congetturato da Agostino, padre del dogma del peccato originale, è per me una spaventosa bestemmia, dato che Agostino destinò gli uomini alla dannazione solo per il fatto di essere stati generati. Questo destino fu recepito dal Concilio di Trento come dogma, là dove proclamò che il peccato originale era “propagatione, non imitatione, transfusum”.
Ecco il canone 3 di quel dogma (con traduzione):
Decretum de peccato originali (fonte: Denzinger 1513)
- Si quis hoc Adae peccatum, quod origine unum est et propagatione, non imitatione transfusumomnibus inest unicuique proprium, vel per humanae naturae vires, vel per aliud remedium asserit tolli, quam per meritum unius mediatoris Domini nostri Iesu Christi, qui nos Deo reconciliavit in sanguine suo, «factus nobis iustitia, sanctificatio et redemptio» (1Cor 1, 30); aut negat, ipsum Christi Iesu meritum per baptismi sacramentum, in forma Ecclesiae rite collatum, tam adultis quam parvulis applicari: anathema sit. Quia «non est aliud nomen sub caelo datum hominibus, in quo oporteat nos salvos fieri» (At 4, 12). Unde illa vox: «Ecce agnus Dei, ecce qui tollit peccata mundi» (Gv 1, 29). Et illa: «Quicumque baptizati estis, Christum induistis» (Gal 3, 27).
Traduzione del "Decreto sul peccato originale":
Se qualcuno afferma che questo peccato di Adamo, che è uno nella sua origine e, trasmesso per propagazione e non per imitazione, è in tutti e in ciascuno come proprio, viene tolto con le forze della natura umana o con un rimedio diverso dal merito dell’unico mediatore, il Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha riconciliati con Dio per mezzo del suo sangue, «diventato per noi giustizia, santificazione e redenzione» (1Cor 1, 30); o afferma che lo stesso merito di Cristo Gesù non viene applicato sia agli adulti che ai bambini col sacramento del battesimo, rettamente conferito secondo la forma della Chiesa, sia scomunicato. Perché «non vi è altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati» (At 4, 12). Da cui l’espressione: «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo» (Gv 1, 29); e l’altra: «Quanti siete stati battezzati, vi siete rivestiti di Cristo» (Gal 3, 27).
Il catechismo cattolico fa ancora oggi (2024) provenire il “peccato originale” dalla libertà: dall’“abuso” di libertà.
Io invece, uomo della strada, percepisco esattamente il contrario, dato che è proprio la libertà da qualcosa o rispetto a qualcosa (libertà negativa) a provenire dall’errore (o “peccato”, o “peccato originale”) cioè dalla separazione dell’uomo dal mondo divino-spirituale o dalla cosiddetta “cacciata dal Paradiso”. Infatti non saremmo mai diventati esseri liberi se non fossimo stati spinti in basso e ciò è molto importante. L’uomo animale della “scienza” odierna è spinto in basso. Non l’uomo ominale, il quale sa differenziarsi dall’animale.
Il catechismo cattolico vincola altresì la colpa al peccato (alla “disobbedienza”), così che delle due l’una: o il cattolico, per affermare il peccato, non può far altro che affermare la colpa, oppure, per negare la colpa, non può far altro che negare il peccato.
Invece io, uomo della strada, affermo, sì, l’errore o il peccato o la discesa o la caduta nella materia o nel corpo fisico-minerale, ma NEGO LA COLPA, proprio perché il peccato si verifica quando l’uomo non è ancora un io o un soggetto responsabile.
Giudico infatti la dottrina del peccato originale una bestemmia perché imputo tale peccato alla volontà umana: quando l’uomo non possedeva ancora l’io non era ancora responsabile delle proprie azioni, come lo è invece oggi a differenza degli animali. C’è una radicale differenza perciò fra il peccato di cui oggi, come uomini, ci dobbiamo sentire responsabili, ed il cosiddetto peccato originale che sarebbe “teologicamente” penetrato nella nostra natura senza nostra diretta responsabilità.
Perciò l’idea che gli uomini siano peccatori agli occhi di Dio per il fatto stesso di essere uomini, è un errore, un insulto all’intelligenza umana.
Agostino e i suoi eredi sapevano ragionare con rigore quando volevano (molti dogmi sono gioielli di pensiero) ma, sulla base del nesso “peccato originale-redenzione storica-battesimo”, escludendo dalla salvezza tutti i non battezzati, destinandoli senza sconti all’inferno, compresi i bambini morti prematuramente senza battesimo, col dogma del peccato originale fecero una sordida figura di fronte al mondo intero. In seguito, per mitigare questa demenziale prospettiva (dietro la quale era lecito chiedersi se vi fosse davvero un Dio nei vangeli), sorse l’idea del Limbo, secondo la quale i giusti non battezzati e i bambini morti prematuramente – rimanendo comunque impossibile per loro il paradiso a causa del peccato originale, non sarebbero finiti nell’inferno.
Quindi dove sarebbero finiti secondo questa impostazione?
Questa impostazione agostiniana durò comunque PER SECOLI, fino a quando nell’aprile 2007 la Commissione Teologica Internazionale propose di “abolire” il Limbo.
Una domanda però restò ed è ancora senza risposta: che fine fanno i non battezzati? Tolto il Limbo, delle due l’una: o, come pensava Sant’Agostino, vanno all’inferno, che a questo punto, visti i 160.000 anni del genere umano conterebbe una popolazione enorme, oppure no: non ci vanno. Ma se non ci vanno, questo non può che significare una cosa sola: che il peccato originale, in quanto tale, non c’è. E siamo di nuovo daccapo, cioè al 13 novembre 354 dopo Cristo, anno della nascita di Agostino a Tagaste (Algeria, Africa).
Come mai Agostino fu così barbaro o berbero da essere basilare poi per il TRIBUNALE DELL’INQUISIZIONE? Secondo me perché non comprese il “dualismo” dei manichei, ai quali aderì come uditore per circa nove anni, come precedentemente mostrato. Non comprese che quel dualismo non era un impossibile nodo da sciogliere ma semplicemente uno scalino da superare, semplicemente pensando concretamente e non “teologicamente” o ideologicamente. Agostino invece vide nel suo inesistente problema del “peccato originale” il peccato sessuale. Quindi restò un barbaro, anzi, l’uomo più criminale della chiesa cattolica, anche se fu poi fatto santo da altri malati mentali come lui. Per secoli i cattolici non hanno fino ad oggi sciolto quel nodo, segno questo che dimostra come nella chiesa cattolica odierna si pensi ancora che la natura umana sia animale e “concupiscente”, anziché ominale.
Da questo fallimento del pensiero teologico emerge nel web tutta la pornografia del pianeta, argomento mai razionalmente affrontato e superato dai teologi, filosofi, chimici, ecc. Oggi si finge che non esista il problema della pornografia perché già l’affermare che la pornografia sia un problema da risolvere spaventa tutti.
“Economia”, “Giustizia” e “Cultura” non ce la fanno. Non riescono ad associarsi in “sophia”, sapienza, per risolvere problemi sociali. Normalizzano tutto, pederastia, omosessualità, lesbismo, criminalità, mafia, ecc. Ciò vale anche e soprattutto per la guerra in cui l’uccisione dei corpi è “normale”. Oggi la pace è guerra e viceversa. Aveva ragione il massone Orwell.
Il corpo però, di per sé, non è concupiscente. L’istinto animale lo è. Quando però l’ominale controlla tale istinto, PERCEPISCE anche che il corpo non fa dell’uomo uno schiavo dei sensi: il corpo gli dà polluzione notturna, cioè effettivo godimento fisiologico ma realmente anti-materiale o spirituale, in quanto privo di “sensi” di colpa agostiniani. Quest’ultimo pensiero non può essere capito dai depravati, chiesastici o non, filosofi o non, alchimisti o non, ecc.
Nessuno può capire questa esperienza se non la fa.
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