GLI SFIGATI (Appendice 1 di “Aporie”)

 

Benvenuto nella sezione "GLI SFIGATI". Lo sfigato è colui che non riesce a considerare adeguatamente il talento proprio: cosa so fare per te? Come posso prosperare secondo i miei talenti? E allora, non rispondendo a simili domande, diventa un parassita.

Attraverso "Aporie", ho offerto una guida per comprendere meglio come perfino le aporie possano influenzare logicamente il nostro modo di pensare e di agire nell'organismo sociale. L'approccio di Marameo alle discipline scientifiche e umanistiche basa infatti sulle 4 logiche dell'uomo ominale: logica matematica, immaginativa, ispirativa e logica intuitiva.

In Marameo esplorerai altresì la distinzione tra "interesse animale" e "interesse ominale", oltre a riflettere sul concetto di interesse come qualcosa che va oltre il mero materiale, abbracciando anche la giustizia, la creatività e l'intelligenza economica.

Esplora ulteriormente le aree dei servizi offerti da Marameo e chiedi pubblicamente di spiegare ciò che abbisogna di ulteriore spiegazione (farai un servizio a tutti): 

 

NB: questo testo è stato scritto durante la cosiddetta pandemia, cioè durante l’esperimento di Stato su cavie umane ai fini bellici del futuro: si volle testare il popolo bue per vedere la sua effettiva succubanza rispetto alla coercizione di Stato, appunto.

 

Senza il pensare si andrà sempre in peggio. Quanto segue è un’ulteriore spiegazione dell’“Appendice 1” del mio libro “Aporie” in cui parlo degli sfigati, facendo notare che gli sfigati, appunto, non sono solo i nullafacenti o gli sfaccendati, che vivono alle spalle dello Stato come parassiti ma anche quelli della mafia intellettuale, avvocati, professori, laureati, cioè le spente intelligenze, incapaci di tutto, che saltano da un partito all’altro sul carro dell’ultimo vincitore, senza mai comprendere quale sia il loro proprio talento. Tutti costoro sono de-pensanti, funzionali ai sistemi di coercizione ai quali anelano. È questo un dato di fatto della storia dei popoli cosiddetti democratici.          

 

Essen o non Essen? Questo è il problema. Carbone e Cerullo faranno la fine di Essen in fisica? Ovvero: la padronanza, invece della servitù, della matematica in relazione alla fisica, può sviluppare la fisica? De il popolo è bue, come farà a governare? Manifestando di non pensare? Un partito del popolo in grado di governare può esistere? Il concetto di partito riguarda una parte di persone. Una parte può credersi civile e anelare a governare un tutto, formato da parti avverse? Chi sa rispondere?  

 

L’odierno credente nella superstizione detta civiltà è duplicemente terrorizzato dalla sua stessa pigrizia de-pensante:

  1. a) da un lato assume “logicamente” che possa esistere un vaccino, ricavato da un virus ubiquo e mutante, creduto - da un lato - isolato nel tempo (di successive fasi pandemiche) e nello spazio della sua ubiquità e
  2. b) dall’altro – lato si crede “buono e giusto”, accettando obblighi imposti presentati come prove di altruismo, così che il “civis romanus” (il cittadino) non abbia più un diritto alla salute ma diventi giuridicamente obbligato alla salute.

Tutto ciò poggia a sua volta sulla superstizione di un contenuto concettuale inesistente, detto spaziotempo. Per esempio, chi fu Essen?

Il padre dell’orologio atomico, Louis Essen, divenne un inesistente fantasma per la scienza fisica dal momento in cui dubitò della sensatezza della relatività einsteiniana, così come da 15 anni è diventato un inesistente fantasma Francesco Carbone per la scienza giurisprudenziale dal momento in cui dubitò della sensatezza dell’uguaglianza civile.

Il problema è culturale, non solo nel campo scientifico ma anche in quello giurisprudenziale in cui Francesco Carbone, appassionato studioso delle leggi e delle pene, e Virginia Cerullo, avvocato, combattono da 16 anni per essere sentiti sulle prove raccolte in merito all’infiltrazione di “cosa nostra” nelle istituzioni italiane.

Questo problema è risolvibile esclusivamente attraverso individuale attività pensante, oggi purtroppo carente nel sub-umanesimo imperante, fatto di uomini senza io o uomini-locusta, cioè da essere umani animali secondo “la scienza”.

Il sabato per l’uomo, cioè l’ambito istituzionale statale a servizio dell’organismo sociale (così come il cuore è a servizio dell’organismo umano), è infatti socialmente attuabile a partire dall’universalità del pensare, non dall’“ipse dixit” di questo o quello scienziato della kultura di Stato.

Un esempio di universalità è che se si hanno due mele e se ne mangia una, si resta incontrovertibilmente con una sola mela. Albert Einstein è da questo punto di vista un esempio di cultura fasulla proprio perché di Stato: è un medaglione storico di Stato che offre da un lato una faccia che dice bianco e, dall’altro, l’altra faccia che dice nero. Di fronte a 2-1, il risultato posto di fronte al medaglione è relativo al metodo convenzionale usato nel calcolo aritmetico, dato che non si distingue in esso la differenza tra convenzionale unità di misura e non convenzionale unità aritmetica, che contenendo già il ritmo in sé non abbisogna di unità di misura e che, anzi, può fondarne molte.

Di fronte a questa evidente universale e secolare aporia, il mondo ha chiuso gli occhi e, con la pandemia imposta dalla tv dello Stato-mafia si ritrova ora di fronte alla seguente questione sociale mondiale: se la relatività einsteiniana è stata creduta per un secolo in base al suo contrario, cioè in base al contrario della relatività, consistente nell’“incontrovertibilità” di E=mc2, formula dell’energia, figuriamoci come il gregge odierno dell’immunità implorata, terrorizzato da un virus mai isolato per definizione (ogni virus essendo mutante ed ubiquo, possa accorgersi di essere stato turlupinato e ghettizzato nella odierna nakba delle genti.

Oltretutto, chi conosce oggi il significato di nakba? Marameo e basta? Spero di no. Cercatevelo nel web. È giunta l’ora che ognuno sappia da sé il senso dei concetti che usa.   

Le seguenti idee per la mia creazione del neologismo “funziono-crazia” a proposito del cosiddetto nuovo paradigma costituito dal de-pensiero einsteiniano, che in verità è solo pensiero debole e perciò dogmatico, così come è mafioso il diritto di Stato che dal 1989 ha ufficialmente preso il posto dello Stato di diritto, provengono da un altro neologismo: “funziono-latria”, che ho trovato nelle pagine dello scritto “Einstein’s ipse dixit. Replica ad un ingegnere nucleare” dello studioso Rocco Vittorio Macrì. Si tratta di una gradevole storia che non posso non raccontare perché racchiude molte cose da me scritte in questi anni, grazie a mera intuizione di uomo della strada quale sono.

Avvenne dunque che un ingegnere nucleare di alto livello istituzionale, dopo aver “toccato con mano” il corrispondere delle formule relativistiche con la sua esperienza quotidiana, contestò lo studioso Macrì dicendo che Einstein non poteva essere toccato, né criticato: “tutto sembra combaciare alla perfezione. Di una cosa che funziona è forse lecito recriminare qualcosa in merito? Perché intestardirsi sulle sterili questioni di principio se le formule in mano alle menti fisico-matematiche nella pratica funzionano?”.

Queste erano in fondo le stesse cose che Enrico Fermi aveva opposte, quasi come un rimprovero alle preoccupazioni di Ettore Majorana, per il quale Einstein diceva solo assurdità: «Non è il caso che due osservatori si mettano a litigare per risultati strani e paradossali» scaturenti dalla relatività di Einstein: il fatto è che funziona!» Fu così che Macrì colse l’occasione per spiegare all’ingegnere che la «funziono-latria» non ha alcuna corrispondenza biunivoca con la verità. Fornì dunque la sua replica di pensieri molto scottanti, che sono sempre stati anche miei, essendo universali. In sintesi: perfino un orologio rotto e quindi fermo segnala per ben due volte al giorno l’ora giusta. Significa forse che quell’orologio rotto non è rotto e funziona?

Dai fisici di Stato sento dire da anni a pappagallo nel web le stesse depensanti conclusioni di quell’ingegnere, alle quali si potrebbe replicare come Macrì. Le espongo con piacere.

In merito ai professori de-pensanti: «[…] sono poi coloro che hanno conquistato la loro “posizione scientifica”, che hanno definitivamente arredato il loro cervello come una casa nella quale si conti passare comodamente tutto il resto della vita; e costoro, a ogni minimo accenno di dubbio e di discussione, vi fanno il viso dell’armi, vi diventano nemici velenosissimi: presi da una folle paura di dover ripensare il già pensato, di doverlo negare o correggere, di dover rimettersi al lavoro, e, insomma, vivere. Per salvare dalla morte i loro libri e le loro “conclusioni” come se non fosse questo il destino naturale di tutti i libri e di tutte le conclusioni, preferiscono consacrarsi, essi, alla morte dell’intelletto» (B. Croce, “Scienza e Università”, Ed. La Critica, 1906, 4, da p. 319, incluso successivamente in “Cultura e vita morale. Intermezzi polemici”, Ed. Laterza, Bari, 1914, seconda edizione raddoppiata 1926; ristampa 1955; ristampa Ed. Bibliopolis, Napoli, 1993). Perciò avviene pure che gli studenti siano ammaestrati «consciamente o inconsciamente, a credere che criticare la relatività ristretta sia un sicuro segno di ignoranza, per non dire di stupidità, da parte del critico» (Herbert Dingle “Science at the crossroads”, Ed. Martin Brian & O’Keeffe, Londra 1972; sul “martirologio” di Dingle si veda anche: http://bastamonopolio.overblog.com/2016/11/nereovillaappuntiereticisueinstein).

In merito alla funziono-crazia o alla saccente logica del “funziona!” che sta dietro la forma mentis dei sedicenti fisici incartati (nella carta dei diplomi, lauree, nobel, ed altri crismi di Stato): sembra che questi superdotati non abbiano bisogno di vagliare la veridicità di una teoria che sta dietro le formule. Per questi Superman contano solo le formule e la loro applicabilità alla materia. “Datemi un’equazione e vi ricostruirò il mondo!” potrebbero esclamare, parafrasando il detto sulla leva di Archimede. Il successo della formula li induce però nell’errore di credere di poter invertire il ragionamento: «“Visto che la formula funziona allora significa che la teoria che le sta dietro è corretta”: questa è un’inferenza tanto diffusa quanto fallace, che la logica medioevale aveva saputo tuttavia arginare. Le errate applicazioni del modus ponens e del modus tollens, così denominate da secoli, sono alla base degli errori della scienza moderna, come dimostra il famoso esperimento di Wason (1966). In un articolo di Owen Gingerich (L’affare Galileo, “Le Scienze”, n. 170, ottobre 1982), professore emerito di Astronomia e Storia della Scienza all’università di Harvard, troviamo riportata un’osservazione di questo tipo sul ragionamento che Galileo avrebbe usato a conferma della natura eliocentrica del sistema planetario: 1) se il sistema planetario è eliocentrico Venere presenta le fasi; 2) Venere presenta le fasi; 3) perciò il sistema planetario è eliocentrico. La struttura sillogistica di questo ragionamento è la seguente: [se p allora q], [q quindi p]: niente di più errato! Ma è un fatto che ci cadano tutti, scienziati compresi. L’inferenza giusta, chiamata in termini medioevali Modus tollens, è la seguente: [se p allora q], [non q quindi non p]. Esiste una serie di esperimenti ormai classici ideati da Wason che dimostrano come “l’errore di Galileo” sia comunissimo nelle inferenze di persone di ogni tipo e cultura. Ma il problema della “funziono-latria” epistemologica è ancora più esteso. Si chiedeva […] Maritain già nel ’23: «Saprà essa [l’intelligenza comune] comprendere, che una teoria e delle formule possono perfettamente combaciare o coincidere coi fatti, senza darci, per ciò, il reale fisico in sé stesso?». Oggi sappiamo che Maritain aveva ragione. Dopo gli studi di pensatori e filosofi come Duhem, Poincaré, Hanson, Popper, Kuhn, Lakatos, Quine, Feyerabend, sappiamo che una teoria scientifica può essere falsa e funzionare “perfettamente”!» (“Einstein’s ipse dixit…, op. cit.). Dunque «l’acclamato successo della teoria di Einstein per via del funzionamento delle sue formule, dopo quanto abbiamo detto, è ingiustificato, visto che le stesse vengono alla luce non solo da altre teorie alternative (ad esempio, quella di Lorentz-Poincaré, come è dimostrato dai numerosi e meritevoli lavori dell’amico Franco Selleri), ma anche da innumerevoli altre mai formulate» (ibid.).

In merito a teoria e tecnologia, non vanno mischiate: «All’interno del Credo dello scienziato, così come dell’uomo di strada, esiste una stretta relazione tra teoria e scoperta tecnologica. Ad esempio, la maggior parte delle persone (scienziati compresi) crede che esista un rapporto di causa ed effetto tra la teoria di Dirac e la scoperta delle antiparticelle, la teoria di Einstein e la scoperta e costruzione della bomba atomica, la teoria di Heisenberg e la scoperta e costruzione del laser, e così via… Niente di più falso! Tecnologia e Teoria scientifica viaggiano su due binari paralleli. L’una non traina l’altra. È vero, però, che esistono momenti di “interazione” tra i due binari, dove l’una fa da “coadiuvante” all’altra e viceversa. Su questo punto sarebbe opportuno (e urgente) scrivere un intero libro (in effetti ci sto pensando da parecchio…); tuttavia, nell’attesa, non sarebbe male sfogliare quello di un grande storico, Federico di Trocchio, “Le bugie della scienza. Come e perché gli scienziati imbrogliano”, Milano 1993» (“Einstein’s ipse dixit…”, op. cit.).

In merito all’incapacità di pensare (o analfabetismo filosofico): vi è un «progressivo impoverimento filosofico della classe degli scienziati (dove sta il corso di filosofia nel piano di studi di fisica?)» (ibid.), un «analfabetismo così “sferico” da far pensare a “un indebolimento e un generale decadimento della ragione” (J. Maritain, “Antimoderno”): “[…] se vogliamo stimare le cose dalla qualità, e non dal peso, si vedrà ciò che esso in realtà è, e si rimarrà spaventati dalla diminuzione dell’intelligenza. L’intelligenza in senso comune, l’agilità nell’agitar parole, è ben presente, e regna; ma l’intelligenza vera è soltanto una mendicante scacciata da ogni luogo”» (ibid.). Negli attuali meandri scientifici la “mancanza di solida base filosofica” avvelena quel “clima di interesse reciproco fra fisici e filosofi che oggi sicuramente non c’è almeno dei primi verso i secondi” (Marco Mamone Capria)» (ibid.).

Evidentemente per il fisico della materia ciò non è essenziale. Perfino Richard Feynman, che non ha la mia stima, dichiarò che “la ricchezza filosofica, la facilità, la ragionevolezza di una teoria sono tutte cose che non interessano” (in ibid.). E Majorana aveva scritto con amarezza: “Intanto le scienze, specializzatissime, ritengono di non aver da preoccuparsi minimamente di tali questioni [le basi concettuali, i fondamenti] che con disprezzo dichiarano psicologiche.

Né hanno da preoccuparsi di questioni logiche e di problematiche filosofiche […]. Quel ch’è certo è che i nostri docenti non colgono mai l’essenziale delle questioni e infilzano un teorema dietro l’altro, senza minimamente preoccuparsi di chiarire criticamente quel che di mutante sta avvenendo nella concezione della scienza moderna. Ma se andassi a esporre queste cose all’Università, potrei solo fare, se ne avessi il coraggio, la fine di Boltzmann: suicidarmi». «C’è nella filosofia della scienza d’oggi quasi un’immensa diffidenza della natura. Forse, direbbe Federico Nietzsche, un nuovo spirito apollineo che ha paura della verità naturale, e vuole costruire qualcosa di puro, di razionale, di immateriale, per cui il rigore logico, la dimostrazione matematica, il calcolo sublime, darebbero la misura del vero. In questo modo si riduce il problema della scienza a mera costruzione ipotetico-deduttiva, la quale conduce a conclusioni necessarie e forzose sulla base di asserzioni ipotetiche ritenute sicure e incontestabili» (in ibid.).

Se una sostanza risulta in provetta fortemente tossica contro batteri nemici dell’uomo, ciò non significa che sia d’emblée utile all’uomo: potrebbe essere nociva per le cellule umane; e pure se innocua alle cellule potrebbe essere inefficace come antibiotico entro l’organismo; ed anche ammettendo perfino che sia capace di disinfettare e guarire un organismo malato, potrebbe alla lunga dimostrarsi pericolosa per i suoi effetti collaterali o per la selezione di microbi resistenti; potrebbe addirittura non presentare alcuno di questi inconvenienti o risultare efficace contro ogni tipo di microbo ma anche in questo caso non sarebbe di per sé utile per l’uomo se Hilary Koprowski (inventore di un vaccino contro la poliomielite) poté scrivere questa raccomandazione ad un suo pronipote: «Se viene trovato un antibiotico di efficacia universale, fonda subito delle associazioni aventi per scopo di ostacolarne l’uso. Dovremmo comportarci in questo caso come avremmo dovuto comportarci con la bomba atomica (e come non ci siamo comportati). Utilizza ogni mezzo intimidatorio nazionale e internazionale per evitare che il nuovo antibiotico cada in mano a gente ottusa, che probabilmente anche al tempo tuo rappresenterà la maggioranza». Lo stesso si potrebbe dire per qualsiasi insetticida trasferito dal laboratorio alla natura, senza le sufficienti verifiche: la natura rifiuta gli interventi drastici e radicali, proprio perché è troppo vecchia per mettersi a correre, ha troppa storia dietro di sé per accettare le imposizioni dell’ultimo arrivato. Il posto dell’uomo nella natura non è quello dello sfruttatore prepotente, dato che proprio come uomo egli fa parte della natura e la natura fa parte di lui (cfr. G. Sermonti, “Il crepuscolo dello scientismo”, Ed. Nova Scripta, Genova 2002, p. 128). Chi non capisce questo, crea vaccini anziché scoprirli nei virus stessi dell’etere di vita, che egli nega a priori secondo i dettami di Einstein.

«Diceva Platone che “chi vede l’intero è filosofo, chi no, no”, contrariamente al sentire contemporaneo, il quale sembra voler spezzare in modo tanto deciso quanto irresponsabile il nesso storico ed epistemologico tra scienza e filosofia, dimenticando che la prima è figlia della seconda: “La filosofia e la scienza sono assai più intimamente collegate di quanto non credano gli scienziati che disprezzano la prima e i filosofi che ignorano la seconda”, scrive uno dei rari fisici non deprivato delle conoscenze filosofiche (A. Garbasso, “Scienza realistica”)» (“Einstein’s ipse dixit…”, op. cit.).

In merito alla sacralizzazione della presunta scienza della materia: il sacro è anche nell’immateriale concetto e nella storia delle idee (formate da concetti) scientifiche. «Generalmente i manuali scientifici presentano la Scienza come lineare e monolitica. Ma chi studia storia e filosofia della scienza sa bene che una tale visione della realtà assomiglia più ad una favoletta per bambini che non ad una verità indiscussa. Il noto epistemologo Thomas Kuhn si è sforzato di spiegare (ma gli scienziati sembrano essere sordi da questo lato) che una siffatta rappresentazione è solo l’immagine “volgare” di una Scienza monolitica e solida nella sua marcia, quando invece – basta una occhiata alla Storia- non lo è» (ibid.). Aggiungo: «Solo Thomas Kuhn (19221996), filosofo di Cincinnati, era riuscito nel 1962 ad offrire un brodino di volpe ai fabbricanti di universi, delineando “un cammino della ragione” attraverso fasi di “scienza normale” e momenti di “rottura rivoluzionaria” (T. Kuhn, “La Struttura delle Rivoluzioni Scientifiche”, 1962). Ma fu un pasto molto poco sostanzioso: infatti “un cammino della ragione” può esservi solo se vi è una ragione. Ma la ragione dov’è? Dov’è la ragione tra gli scienziati addomesticati da Kant che la criticò prediligendo ad essa la fede (“Dovetti dunque togliere la conoscenza per fare posto alla fede”: Kant, Prefazione alla 2ª edizione di “Critica della ragion pura”)?» (https://digilander.libero.it/Vnereo/sullaculturadellodio.htm). E dove sarebbe la ragione nel kantiano Einstein, che predicò la comprensione senza intuizione? (cfr. A. Einstein in “Physikalische Zeitschrift”, Vol. 21: “Allgemeine Diskussion ueber Relativitaetstheorie bei Versammlung deutscher Naturforscher und Aerzte”, Bad Nauheim, September 1920).

Oggi chi lavora con la fisica di Stato fa fatica ad essere scienziato: Gianfranco Cavalieri, docente di Relatività all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia «non potendo ufficialmente opporsi alla concezione einsteiniana dominante, è riuscito ad “assemblare” la sua teoria con quella di Einstein, come se la prima fosse un semplice perfezionamento della seconda. Altri hanno pagato a loro spese l’opposizione all’“ipse dixit”, come capitò a Louis Essen (1908-1997), l’inventore dell’orologio atomico, che perse il Nobel per aver fatto due lavori anti-relativistici. E che dire dell’amico Roberto Monti, fisico e ricercatore di alte capacità, uno dei cervelli più indipendenti che esistano sul pianeta, costretto a lasciare la Ricerca della fisica italiana per aver osato opporsi alle idee di Einstein?» (Quando Macrì scriveva queste parole Roberto Monti era ancora fra noi).

 

In merito alla mancata consapevolezza della nostra miseria: scienziati di Stato, il vostro tempo è finito. Siete solo degli ingenui primitivi che dimostrano di non volersi emancipare liberando il vostro spirito ormai annichilito. «Più che ad ogni altra cosa – continua Macrì – nella mia vita devo essere grato alla lunga esperienza come programmatore informatico. Chi, come me, scrive programmi utilizzando un linguaggio di programmazione sa bene quanto sia fallace la mente umana e come sia continuamente “bacchettata” dalla macchina, in modo inesorabile e impietoso. Non c’è alcun modo di vincere con il computer: si può essere sicuri quanto si vuole, ma dopo un centinaio di linee di programma, cioè dopo aver progettato e costruito una subroutine o procedura, la macchina ti segnala l’ineluttabile errore alla riga xyz del codice.

E anche dopo anni, lustri, decenni di programmazione, dopo che hai fatto decine e centinaia di programmi, l’errore è ancora lì, dietro l’ultimo enter, al click del comando RUN! Eppure ci sono momenti in cui ti senti sicuro, sicurissimo: scommetteresti qualunque cosa che questa volta il programma funzionerà al primo colpo! Ma l’elaboratore pare fatto apposta per smentirti, per farti rientrare nella tua miseria di essere umano non-onnipotente: come se ti volesse ricordare che sei affetto dal peccato originale, che sei prigioniero dell’“errore vagante”. Errare humanum est dicevano i Latini, una proprietà che risulta più ontologica che epistemologica dopo quanto detto. Lo storico della scienza George Dyson, figlio del grande fisico Freeman Dyson, riporta la significativa testimonianza di uno dei pionieri del computer, Maurice Wilkes, durante la verifica di un programma a Cambridge: «Fu in uno dei miei tragitti fra la stanza dell’EDSAC e i dispositivi per la perforazione, mentre indugiavo all’angolo delle scale, che mi resi conto improvvisamente e appieno che avrei passato buona parte del resto della mia vita a trovare errori nei programmi che io stesso scrivevo». Lo stesso Dyson ammette: «Da tempo i programmatori hanno abbandonato la speranza di prevedere se una certa porzione di codice funzionerà effettivamente come previsto». Questa è la “lezione di vita” che un programmatore impara dall’interazione con la macchina. Lezione, ahimè, sconosciuta dallo scienziato. E quanto ne avrebbe bisogno! Ecco da dove viene, allora, l’apparente sicurezza e spavalderia dell’uomo di “scienza” che si fa garante della correttezza della teoria di Einstein o della teoria di Darwin o di altre ancora. Gli innumerevoli errori di previsione che abbiamo pagato a caro prezzo, dalla vicenda del Titanic fino al disastro ambientale dei nostri giorni attraverso lo sversamento massivo di petrolio nelle acque del Golfo del Messico dalla piattaforma petrolifera Deepwater Horizon non sono serviti a molto. Nella sua mente lo “scienziato” sente di essere una sorta di divinità, il suo potere baconiano lo rende ubriaco: “L’uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono”, ci ricorda il salmo 49. Eppure, sotto il suo camice, sovente si nasconde un bambino. Il celebre fisico Erwin Schrodinger, in un brillante saggio del 1948 dal titolo “La natura e i Greci”, porta alla luce “il grottesco fenomeno di menti allenate scientificamente, di gran competenza, che hanno vedute filosofiche incredibilmente infantili, non sviluppate o atrofizzate”. Ma già nel 1768 il grande matematico Eulero aveva messo in guardia l’opinione pubblica, scrivendo che “in generale la grandezza dell’ingegno non garantisce mai dall’assurdità delle opinioni abbracciate”. Ecco i “cocci” che rimangono una volta tolto il camice, come ci fa vedere un grande ammiratore di Einstein: “Verso la fine della sua vita confessò che i suoi legami personali più forti, compresi quelli con la moglie e i figli, erano stati altrettanti fallimenti. Quando la figlia che la sua seconda moglie Elsa aveva avuto da un precedente matrimonio quella stessa Ilse che un tempo aveva pensato di sposare – morì di cancro a Parigi nel 1934, alla verde età di trentasette anni, si rifiutò di accompagnare la moglie a Parigi per assisterla. La giovane prima moglie, Mileva Maric, morì da sola a Zurigo, disperatamente infelice, senza essersi riconciliata con l’uomo che l’aveva abbandonata. La figlia che Einstein aveva avuto da lei, Lieserl, sparì nelle brume del tempo. Il suo primo figlio, Eduard, un bambino dotato, fu colpito da schizofrenia e fu rinchiuso in una clinica psichiatrica, dove rimase per il resto della sua vita, senza che il padre gli facesse mai visita. Il suo secondo figlio, Hans Albert, rimasto sempre lontano dal padre, non ebbe rapporti col genitore nemmeno dopo essere emigrato anche lui in America. Infine, anche il secondo matrimonio di Einstein, come il primo, fu un fallimento, anche se gli fornì almeno un’esile radice in un’esistenza del tutto sradicata” (Palle Yourgrau, “Un mondo senza tempo”). Se lo scienziato potesse riconoscere la propria umana miserabilità, la parzialità della sua mente, allora potrebbe esclamare con Pascal: “L’uomo è grande poiché si riconosce miserabile”. Lo strascico di tale vulnerabilità e debolezza non può non contagiare ogni parte della nostra esistenza, compresa la scienza. Abbiamo davanti un caso paradigmatico: John von Neumann, “uno dei più grandi matematici del nostro secolo”. Il nobel Eugene Wigner lo ha descritto come “la mente più brillante mai conosciuta su questa Terra”! Nel suo libro “I fondamenti matematici della meccanica quantistica” del 1932 egli presenta una lucida formulazione della teoria che diventerà un fermo punto di riferimento “per tutti coloro che ritengono il rigore logico e matematico un ingrediente irrinunciabile di ogni schema che aspiri ad avere dignità scientifica” (Gian Carlo Ghirardi, “Un’occhiata alle carte di Dio”). Sulla scia delle ricerche di Bohr, Heisenberg, Pauli, Born, Jordan e Dirac che permettevano di edificare un imponente edificio teorico basato su una concezione positivistica e pragmatistica della fisica, von Neumann esibisce la dimostrazione matematica che il programma delle teorie a variabili nascoste è condannato a fallire, vale a dire che nessuna teoria predittivamente equivalente alla meccanica quantistica può assegnare a tutte le osservabili, valori precisi (anche se non conosciuti). La “impossibility proof” “assunse ben presto (grazie all’immenso prestigio del suo autore) il ruolo di un dogma che venne usato dai paladini dell’ortodossia contro gli ‘eretici’: risulta perfettamente inutile che vi affanniate a cercare qualcosa che ‘ipse (von Neumann) dixit (cioè dimostrò)’ non essere possibile”. Per più di trent’anni, il teorema di impossibilità di von Neumann, venne considerato come esempio emblematico di teoria matematicamente formalizzata, perfettamente scientifico e coerente. Ne era garante il matematico, celebre per “la sua velocità di pensiero e la sua memoria… tanto leggendarie che Hans Bethe (premio Nobel per la fisica nel 1967) si chiese se esse non fossero la prova di appartenenza ad una specie superiore”: “Von Neumann fu un bambino prodigio: a sei anni conversava con il padre in greco antico; a otto conosceva l’analisi; a dieci aveva letto un’intera enciclopedia storica; quando vedeva la madre assorta le chiedeva che cosa stesse calcolando; in bagno si portava due libri, per paura di finire di leggerne uno prima di aver terminato” (P. Odifreddi).

Poi qualcuno aprì gli occhi, come ci racconta il prof. Franco Selleri: “Il FLOP più famoso è quello del teorema di J. Von Neumann che ‘dimostrava’ l’impossibilità di una riformulazione causale della meccanica quantistica. Formulato nel 1932, il teorema era matematicamente rigoroso, ma aveva una fondamentale debolezza di impostazione (insufficiente generalità degli assiomi) che ha dovuto aspettare le ricerche di Bohm e Bell (1966) per essere smascherata. Per più di trent’anni c’era una buca logica, ma nessuno se n’era accorto! E tuttavia il grande prestigio di von Neumann, aiutato dalle esplicite dichiarazioni di altri grandi personaggi, ottenne in pratica, per molto tempo, il risultato di proibire l’attività scientifica nella direzione della causalità e del realismo. Ecco dunque dei fattori extralogici al lavoro, in accordo con la tesi di Macrì. Quando Bohr, Heisenberg, Born e Pauli dichiaravano che il teorema di von Neumann rendeva impossibile un completamento causale della teoria dei quanti, andavano al di là di ciò che comprendevano razionalmente, altrimenti avrebbero visto i gravi limiti del teorema. Le loro affermazioni nascevano dalla convenienza e non da un processo logico ineccepibile. Oggi il teorema è superato e il re è nudo …” (Franco Selleri, “La natura del tempo”). Non possono mancare, a questo punto, le parole di un grande filosofo dei nostri tempi, il compianto Carmelo Ottaviano: “Non dispiacerà al candido lettore che io cominci questo articolo con una confessione di carattere personale, e vorrei aggiungere umano, con l’espressione cioè di una delusione, una delle più singolari della mia vita. […] Ora la delusione di cui dicevo mi è stata causata da quella categoria di persone che nella nostra lingua sono chiamati ‘scienziati’, cioè cultori della matematica e della fisica. […] Per quanti ne abbia conosciuti e frequentati, salvo pochissime eccezioni, quante asserzioni infondate, quanto dogmatismo nei punti di partenza, quanta pertinacia nell’affermare, quante conclusioni arbitrarie e ingiustificate, quanti salti di deduzione, quante contraddizioni tra l’uno e l’altro settore di idee! Pare proprio che l’abito deduttivo procuri una specie di cecità mentale, di meccanicità del pensare, per cui i suoi cultori finiscono con l’acquistare la duplice deformazione professionale di non riuscire a sottoporre a critica i postulati da cui partono e di non riuscire a sistemare tutte le loro idee in un quadro armonico. Per questo li ho veduti sempre abbandonarsi ad affermazioni di cui non danno la dimostrazione, e ad asserzioni in un settore che fanno a pugni con le asserzioni di un altro settore. Né a questo quadro fa eccezione Alberto Einstein […] Con ogni rispetto parlando, par di sentire parlare un bambino…».

In verità, un bambino ritardato e sociopatico fino alla morte (nel 2000, il neuropsichiatra Simon Baron-Cohen dell’Università di Cambridge decreterà per lui la diagnosi di sindrome di Asperger).