Per la scienza dell’io, l’attività più alta del sovrasensibile pensare, in grado di stare in piedi da sé, è base epistemica di tecnica concettuale, paragonabile allo scheletro umano, idoneo a un lavoro umano sensibile o materiale, anche brutale.
Quanto segue sul “moto pendolare vivente” è la mia revisione di miei appunti tratti da un efficace studio hegeliano del 2003 di Francesco Giorgi, studioso dell’opera steineriana e amministratore del sito internet “Osservatorio scientifico spirituale”. Gli odierni buffoni, sedicenti antroposofi incapaci di tutto, possono confrontare lo scritto originale https://www.ospi.it/2003/03/01/del-moto-pendolare-vivente/ con questa marameo-versione, che reputo importante per chi voglia indagare su sé stesso e perfino per il futuro sviluppo dell’intelligenza artificiale.
La domanda di partenza dovrebbe essere: in che senso l’individuale può essere universale? E in che senso il molteplice può essere un’unità? Sembra difficile rispondere a queste domande. Ma ciò che sembra non è ciò che è, anche quando crediamo di trovarci davanti a una contraddizione. Da un lato vi sono esperienze pensanti importanti per tutti; dall’altro vi sono idee morali congeneri alle prime ma che si esplicano per tutti in modo individuale.
Chi, di fronte a questa contrapposizione, è portato a fermarsi, come davanti ad una contraddizione, e non riconosce che appunto nella vivente contemplazione di questo contrasto effettivamente esistente si rivela una parte dell’essere umano, non può vedere in giusta luce né l’idea della conoscenza, né l’idea della libertà.
Per quel modo di vedere che pensa i suoi concetti solo come ricavati (astratti) dal mondo dei sensi, e che non concede all’intuizione la parte che le spetta, il pensiero qui assunto come realtà resta una mera contraddizione.
Invece per il modo di vedere che intende come le idee siano sperimentate intuitivamente come essenzialità poggianti ognuna su sé stessa, è chiaro che l’uomo, penetra e vive, nel conoscere, in un mondo di idee che è un elemento unitario per tutti, ma che quando da quel mondo di idee prende le intuizioni per i suoi atti volitivi, individualizza un membro di quel mondo di idee mediante la stessa attività che nel processo del conoscere sviluppa come immateriale e universale attività umana.
Se visto nella sua realtà, ciò che sembra in contraddizione logica, cioè la natura universale delle idee conoscitive e la natura individuale delle idee morali, si tramuta nel concetto vivente. Una caratteristica dell’entità umana sta precisamente nel fatto che quanto può essere intuitivamente afferrato nell’uomo, si muove qua e là, come in un moto pendolare vivente, fra la conoscenza avente valore universale e lo sperimentare individuale di quell’universale. Per chi non è in grado di contemplare nella sua realtà una di queste oscillazioni, il pensare resta solo un’attività umana soggettiva; a chi non è capace di afferrare l’altra, sembra invece che con l’umana attività pensante si perda ogni vita individuale. Per un pensatore della prima specie la conoscenza è un fatto impenetrabile, per l’altro è impenetrabile la vita morale.
Per spiegare l’uno e l’altro dei due casi, entrambi adducono ogni sorta di ragionamenti, che sono tutti inadeguati, perché da entrambi la sperimentabilità del pensare non è compresa o disconosciuta perché ritenuta attività meramente astratta.
Pertanto è grazie a un “moto pendolare vivente” che l’uomo riesce, nella sua vita conoscitiva, a universalizzare il dato individuale dell’oggetto di percezione (percetto) e, nella sua vita morale, a individualizzare il dato universale del pensare (concetto).
Non è però facilissimo prenderne coscienza, cioè farsi, del rapporto tra universalità del concetto (acquisito mediante pensare) e particolarità del percetto (acquisito mediante volere), un’idea non meno viva e reale di quella che tutti abbiamo, sul piano fisiologico, del rapporto ritmico tra la diastole e la sistole del cuore, o tra l’inalazione e l’esalazione dei polmoni (l’io ha una reale rappresentazione del pensare, sapendo che il pensare è una forza in grado di agire sul respiro e che vive realmente nel respiro).
La cognizione sensibile chiarisce come le due oscillazioni di tale moto pendolare vivente - quella che come “inalazione” va dall’individuale all’universale e quella che come “esalazione” va dall’universale all’individuale - presiedano tanto all’attività conoscitiva, quanto all’attività morale.
Il riflettere sui concetti di “universalità”, “particolarità” e/o “individualità”, nonché sui loro reciproci rapporti, può anch’esso tornare utile.
Kant distingueva i concetti “superiori” o più ampi da quelli “inferiori” o più ristretti. “Il concetto superiore – scriveva infatti– si chiama, in rapporto al suo concetto inferiore, genere (genus); quello inferiore, in rapporto al suo concetto superiore, specie (species). Come i concetti superiori o inferiori, così anche i concetti di genere e di specie sono perciò distinti non per la loro natura, ma in considerazione del loro rapporto reciproco (termini a quo o ad quod) nella subordinazione logica (…). Il genere sommo è quello che non è una specie (genus summum non est species), così come la specie infima è quella che non è un genere (species, quae non est genus, est infima)” (I. Kant, “Logica”, Ed. Laterza, Roma-Bari 1984, p. 89). Poiché “l’estensione o la sfera di un concetto è tanto più grande quante più cose stanno sotto quel concetto e possono essere pensate con esso” (ibid., p. 88), egli considera allora l’universale un “genere sommo” e l’individuale una “specie infima”. I concetti – a suo dire – avrebbero dovuto essere comunque distinti “non per la loro natura, ma in considerazione del loro rapporto reciproco”. Hegel non si appagò di una siffatta estrinseca distinzione e, nella sua “logica del concetto” - oggettivo nel suo contenuto e soggettivo nella sua prospezione dialettica, cioè nel suo manifestarsi - si sforzò di afferrare l’intrinseca natura delle determinazioni. “Il concetto – scrive infatti Hegel– comprende i momenti dell’individualità, della particolarità e dell’universalità: li comprende come determinazioni essenziali distinte e, nello stesso tempo, li supera in sé ed è la semplice identità con sé stesso” (cit. in F. Matarrese, “Hegel e la logica dialettica”, Ed. Dedalo, Bari 1976, p.30).
Lo posso ben comprendere immaginando di camminare in una stanza ad occhi chiusi e con braccia protese, arrivando a toccare qualcosa. Dopo essermi arrestato, sicuramente so: “Qui, c’è qualcosa!”; in senso filosofico: “Qui e ora (hic et nunc), qualcosa è”. È evidente che ho appreso che qualcosa è, ma che non ho ancora appreso qual è la cosa che è. Perciò, d’ora in avanti, chiamo tale cosa “x”. NB: ho comunque cominciato a giudicare, cioè a giudicare l’essere di x. Si tratta, tuttavia, di un giudizio sui generis.
Hegel scrisse infatti: “il giudizio astratto è la proposizione: il singolo è l’“universale”, o “l’individuale è l’universale, o più determinatamente: il soggetto è il predicato” (G. W. F. Hegel, “Enciclopedia delle scienze filosofiche”, Ed. Laterza, Roma-Bari 1989, p.165); e contiene: “1) il soggetto, in quanto aspetto dell’individualità o della particolarità; 2) il predicato, in quanto aspetto dell’universalità che è, allo stesso tempo, un’universalità determinata, o anche particolarità, in quanto comprende solo una delle molteplici determinazioni del soggetto; 3) la semplice relazione, priva di contenuto, tra predicato e soggetto: è, la copula” (cit. in F. Matarrese, p.132).
Nel mio giudizio, essendo il soggetto ancora indeterminato, la copula non assolve la sua normale funzione ed è essa stessa, anzi, a presentarsi come una specie di predicato (cioè come l’essere di x).
“Quando apprendiamo il molteplice sensibile, – scriveva Hegel – non pensiamo ancora; è l’atto del rapportarlo, che si chiama propriamente pensare” (ibid., p.100).
Domanda: se – come dice Hegel – nell’apprendere il molteplice sensibile “non pensiamo ancora”, come fa allora a scaturire, da questo non-pensare, il nostro primo e incompleto giudizio? Per poter rispondere a questo interrogativo, devo ricorrere all’EPISTEME, cioè all’antica scienza dell’io (Giovanni 8,58), detta oggi scienza dello spirito. Questa infatti spiega che l’uomo non pensa ancora fino al momento in cui è impegnato nel percepire (che è atto dell’io, ma fatto del corpo o, più precisamente, del corpo senziente). In tal senso l’uomo è come un Dio che prima fa e poi vede se ciò che fa è buono. Questa veggenza è ripetuta ben sei volte nel primo capitolo della Genesi (Genesi 1,4.10.12.18.21.31). Ciò che io determino come esperienza percettiva è quella in cui il pensare non ha parte: quando l’input sensoriale - dopo essere passato per via AFFERENTE dal corpo senziente all’io - passa per via EFFERENTE dall’io all’attività interiore (anima senziente connessa al corpo che si anima, detto astrale), l’oggetto di percezione diventa sensazione, che è il confluire di brame e giudizi entro la vita dell’anima stessa o dell’attività interiore stessa.
Riesco quindi a formulare il mio primo e incompleto giudizio in quanto cominci a pensare, non già in modo astratto e lucido nell’anima razionale o affettiva (legata al corpo vitale o etereo o eterico) o in quella cosciente (legata al corpo fisico), bensì in modo vivo e crepuscolare nell’anima senziente. Per la scienza dell’io non esiste infatti l’incoscienza; esistono solo gradi differenti di coscienza. Dunque è in virtù di quell’attività interiore in cui sono compresenti tanto il bramare o il volere e il giudicare (pensare) quanto la viva esperienza dell’incontro o dello scontro di me che sono con un qualcosa che è, che si traduce in una subitanea coscienza dell’essere.
Si tratta, sì, della sensazione dell’essere che non ancora concetto dell’essere ma di una sensazione che non mi impedisce, per quanto ancora crepuscolare, di formulare quel giudizio sui generis circa l’oggetto di percezione.
Torno ora all’esempio precedente: immaginiamo ora di aprire gli occhi e di poter così individuare qual è la cosa che è. Chiamo tale cosa “a”. Ecco allora che il mio primo giudizio può essere così formulato: “Qui e ora, a è”. Affermare che x è a, significa però affermare – con Hegel – che “l’individuale è l’universale” o che “il soggetto è il predicato”. Infatti è come dire: “questo indeterminato individuale (questo x che qui e ora percepisco separato da tutti gli altri, e giustapposto a quelli) è quel determinato universale (quell’a)”.
Il mio primo giudizio si è dunque completato nel momento stesso in cui, avendo portato incontro al dato individuale dell’oggetto di percezione quello universale del concetto, sono stato in grado di affermare: “x è a” (x=a).
Ma come è stato possibile?
Il fatto è che prima di prendere coscienza – come vorrebbe Hegel – del fatto che io mi sia mosso sempre all’interno del concetto, avrei dovuto prendere coscienza del fatto che mi sia appunto mosso, cioè che io sia risalito dal concetto appreso mediante il corpo (come percetto), al concetto appreso mediante spirito o io (come concetto): in altre parole che io sia asceso dal mio momento individuale (x), afferrato colto grazie ai sensi, al mio momento universale (a), afferrato grazie all’io.
È stato dunque possibile perfezionare il mio primo giudizio in virtù di un moto che ha operato una metamorfosi del concetto quale oggetto indeterminato (quale x) nell’oggetto quale concetto determinato (quale a).
Ebbene, questo movimento corrisponde a una delle due oscillazioni caratterizzanti il “moto pendolare vivente” sopra accennato e, più esattamente, a quella che va, in modo ascendente o afferente dal corpo allo spirito o dall’individuale all’universale.
Per comprendere l’oscillazione opposta, posso servirmi del seguente altro esempio.
Immagino un bambino che, visitando lo zoo insieme al padre, giunto di fronte alla gabbia del leone, chieda: “E questo che cos’è?”. In termini filosofici, la domanda potrebbe essere formulata così: “Quale è il concetto corrispondente a quest’x che qui e ora percepisco?”. Il padre sicuramente risponderà (sicuramente se non è un imbecille; scusate ma non riesco a risparmiarmi questa battuta, dato il mondo subumano odierno): “Questo è il leone!”.
Adesso, immagino invece un bambino che, avendo sentito solo parlare del leone, chieda al padre: “Mi porti a vederlo?”. In questo caso, una volta arrivati di fronte alla gabbia del leone, è probabile che il padre dirà al figlio: “Il leone è questo!”.
Come si vede, la seconda affermazione (“il leone è questo”) è l’opposto della prima (“questo è il leone”). Nel primo caso, si è partiti infatti dall’oggetto o dall’individuale e si è giunti al concetto o all’universale, mentre nel secondo si è partiti dal concetto o dall’universale e si è giunti all’oggetto o all’individuale. Nel primo, si è andati cioè alla ricerca del concetto corrispondente al dato della percezione (x), mentre nel secondo si è andati alla ricerca dell’oggetto corrispondente al dato del pensare (a).
Questa è l’altra oscillazione del “moto pendolare vivente” accennato, ossia quella che va, in modo discendente o efferente dallo spirito al corpo o dall’universale all’individuale. Se la prima oscillazione è rappresentata dalla formula “x=a” (x è a), la seconda è quindi rappresentata dalla formula “a=x” (a è x).
Dunque è come se si fosse avviato in me un ragionamento, e ci fossi detto: “ se x è a, allora a è x”.
A questo punto, va però sottolineato il fatto che entrambe le oscillazioni, per portare a compimento i loro rispettivi tragitti, devono necessariamente attraversare la sfera intermedia della “particolarità” o dell’anima (attività interiore).
“La filosofia della libertà” di R. Steiner si occupa di questa sfera intermedia là, dove, dopo aver trattato dell’oggetto di percezione e del concetto, tratta della rappresentazione. “La rappresentazione – scrive infatti – non è altro che un’intuizione riferita ad un dato oggetto di percezione, concetto che è stato una volta congiunto ad un oggetto di percezione ed al quale è rimasto il rapporto con tale percezione. Quest’ultimo non è perciò che un “concetto individualizzato” (R. Steiner, “La filosofia della libertà”, p.89); o, per meglio dire, “particolarizzato”.
Tale concetto fu – per Hegel – l’“universale posto in una determinazione” (cit. in F. Matarrese, p.131). La rappresentazione – spiegò appunto Hegel – può essere considerata, in genere, “come una metafora del pensiero e del concetto” (G. W. F. Hegel: “Enciclopedia delle scienze filosofiche”, Ed. Laterza, Roma-Bari 1989, p. 6). Si tratta infatti di un’immagine che “ha la forma del pensiero, ma non è posta come pensiero, non è ancora assolutamente liberata dal sensibile”, e che si articola, normalmente, nel ricordo, nella memoria e nell’immaginazione (ibid., p. 619); ma anche – andrebbe aggiunto – entro l’immagine percettiva.
Come nasce allora la rappresentazione? La rappresentazione nasce quando, dalle due formule illustrate, se ne ricavi necessariamente una terza. Non devo far altro, quindi, che portare avanti e concludere il precedente ragionamento dell’esempio: “se x è a, e se a è x, allora a è a” (a=a).
Ciò che sorprende è che viene così a prender forma un sillogismo. Se il giudizio è una relazione tra concetti, il sillogismo è infatti una relazione tra giudizi.
E qui abbiamo appunto:
1) 1) “X è A” o “X=A” (primo giudizio o “premessa maggiore”);
2) 2) “A è X” o “A=X” (secondo giudizio o “premessa minore”);
3) 3) “A è A” o “A=A” (terzo giudizio o “conclusione”).
Si dovrebbe ammettere che senza questa scoperta, non sarebbe affatto facile comprendere le seguenti affermazioni di Hegel: “Il sillogismo è la ragion d’essere essenziale di ogni verità; e la definizione dell’assoluto è ora questa: che l’assoluto è il sillogismo, o, esprimendo tale definizione in una proposizione: ogni cosa è un sillogismo. Ogni cosa è concetto, e il suo essere determinato è la distinzione dei momenti di esso; cosicché la sua natura universale, per mezzo della particolarità, si dà realtà esterna, e così, e come riflessione negativa in sé, si fa individuale. – O, per converso, il reale è un individuale, che, per mezzo della particolarità, si eleva all’universalità e si fa identico a sé” (ibid., p. 174).
La stessa scoperta, tuttavia, si rivela ancor più preziosa se si vuole intendere che “in ogni attività logica, vale a dire pensante e conoscitiva, abbiamo sempre tre elementi (…) la prima cosa (…) è una conclusione, la seconda è un giudizio, l’ultima (…) è un concetto (…) Prima di tutto abbiamo continuamente ciò che denominiamo conclusione (…) QUESTA ATTIVITÀ DEL CONCLUDERE È LA PIÙ COSCIENTE DELL’UOMO; l’uomo non potrebbe esprimersi mediante idioma se non attraverso continue conclusioni (…) La logica scolastica spezzetta di solito i sillogismi; ma così facendo falsa quelli che si presentano nella vita ordinaria. La logica scolastica non tiene conto del fatto che noi traiamo già una conclusione ogni volta che prendiamo di mira un oggetto isolato” (R. Steiner, “Arte dell’educazione”, Ed. Antroposofica, Milano 1993, vol.1°, pp. 130-131).
QUESTA ATTIVITÀ DEL CONCLUDERE È LA PIÙ COSCIENTE DELL’UOMO?
CERTO! Se dunque l’attività del “concludere” non è diversa da quella del “rappresentare” anche la rappresentazione è quanto di “più cosciente” sia normalmente sperimentato dall’uomo, quale esito o termine ultimo (caput mortuum) di un complesso, dinamico e inconscio processo di elaborazione.
Se il sillogizzato (in veste di conclusione o di rappresentazione) è perciò presente alla ordinaria coscienza di veglia (intellettuale), non altrettanto presenti le sono invece i giudizi (quali elementi del sillogizzare), i concetti (quali elementi del giudicare) e, meno che mai, le attività stesse del giudicare e dell’intuire.
“Naturalmente noi non sappiamo di compiere continuamente tale attività (…) Di solito si crede che l’uomo pervenga per prima cosa ai concetti; ma non è vero. La prima cosa nella vita sono le conclusioni” (ibid., p. 131); solo più tardi si perviene alla coscienza dei giudizi e, ancora più tardi, a quella dei concetti.
Eccoci dunque di fronte a quella enantiodromia (dal greco antico ἐναντιοδρομία, composto di enantios, opposto e dromos, corsa e significa letteralmente corsa nell'opposto, in cui il gioco degli opposti nel divenire è l'idea secondo cui tutto ciò che esiste passa necessariamente nel suo opposto) che caratterizza il rapporto tra il processo del conoscere e quello del creare. Se è infatti dalla causa che si crea l’effetto, è però dall’effetto che si conosce la causa. Una cosa, perciò, è il processo (spirituale) grazie al quale, partendo dalle conclusioni o dalle rappresentazioni che giacciono nel conscio, arriviamo a conoscere i giudizi e i concetti che vivono nell’inconscio, altro è il processo (naturale) grazie al quale, partendo dai concetti e dai giudizi che vivono nell’inconscio, arriviamo a conoscere le conclusioni o le rappresentazioni che giacciono nel conscio.
Ecco perché gli attuali sedicenti antroposofi che oggi - per esempio a proposito della liberazione di Assange – non fanno altro che, nella loro filosofia del vespasiano, che fanno altro che decretare su cosa e su come ci si debba indignare, con regole e svalutazioni di tipo anacronistico dell'opera omnia di Steiner (“cicalecciocrazia antroposofica” insomma) dovrebbero tenere presente che “la scienza dello spirito è qui per estrarre dalla sfera dell’inconscio e per innalzare alla sfera del cosciente questo elemento direttamente connesso con la natura umana, con l’ETERNO della natura umana”) (R. Steiner, "Le manifestazioni dell’inconscio nella vita dell’anima" in Antroposofia, rivista mensile di scienza dello spirito, anno XVII, n° 4, 1962, p. 113).
La rappresentazione si dà dunque in quella sfera mediana della particolarità (dell’anima) che è appunto situata tra quella superiore dell’universalità (dello spirito o dell’io) e quella inferiore dell’individualità (del corpo). Sfera – sia detto per inciso – in cui si svolge il giudicare, e nella quale quindi, là, dove si portasse (per motivi affettivi o utilitari, e dunque egoistici) incontro al percetto x il concetto b, anziché quello a (che originariamente gli appartiene), nascerebbe la MENZOGNA.
La rappresentazione è pertanto una sintesi del mondo esteriore-individuale della percezione e di quello interiore-universale del concetto. “La rappresentazione – testimoniò appunto Hegel – costituisce il punto medio tra l’immediato trovarsi determinato dell’intelligenza, e l’intelligenza medesima nella sua libertà, che è il pensiero” (G. W. F. Hegel, "Enciclopedia delle scienze filosofiche", Ed. Laterza, Roma-Bari 1989, p. 441). Il suo contenuto, infatti, “è anche questa materia sensibile, ma è una materia di cui io mi sono appropriato perché questo contenuto è in me e perché questa è una materia che il contenuto ha rivestito di una forma semplice, generale e riflessa (…) Ma il carattere distintivo, che la rappresentazione conserva anche nella sua forma generale, è che il contenuto è presente in essa in uno stato di individualizzazione e di isolamento (…) Queste rappresentazioni, che sono in sé spirituali, restano isolate”; è grazie a tale “carattere distintivo” – testimoniò inoltre – che “si vede il rapporto tra facoltà rappresentativa e intelletto. Queste due facoltà non differiscono fra di loro che in questo: mentre l’intelletto introduce nelle determinazioni isolate delle rappresentazioni, le relazioni tra generale e particolare, tra causa ed effetto ecc., e, quindi, delle relazioni necessarie, la facoltà rappresentativa, invece, si limita a porre le rappresentazioni l’una accanto all’altra” (cit. in F. Matarrese, pp. 90-91).
La rappresentazione, insomma, è una realtà spirituale, ma non universale e una realtà individuale, ma non sensibile. Essa – osservava infatti Hegel – “ha in genere, benché sia qualcosa di appartenente all’intelligenza, (…) il carattere di alcunché di dato e d’immediato riguardo al contenuto” (G. W. F. Hegel, “Enciclopedia delle scienze filosofiche”, Ed. Laterza, Roma-Bari 1989, p. 444).
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