Il livello immaginativo è la prima facoltà conoscitiva superiore rispetto a quello della "catena di montaggio” (o intellettualistico, o matematico o della mera astrazione). Quest’ultima non è logica concreta o logica di realtà, ma logismo, formalismo logico, per esempio quello del galateo o delle netiquettes, o del “politicamente corretto”, oppure ancora dell’intelligenza artificiale odierna, che è ancora ai primordi ma che sarà straordinariamente utile all’uomo ominale (cioè non animale; cfr. il concetto di ominale in "INTER ESSE") perché dovrà imparare esponenzialmente questo suo servizio fino al limite immaginativo possibile.
Possediamo tutti, per natura, due modi di pensare, che ci permettono di conoscere due differenti realtà: quella materiale, data dal vedere con l’occhio fisico, e quella dell’interiorità, data dal vedere con l’occhio interiore (o logica del cuore, in contrapposizione a quanto nella vita esterna si conosce anche come logica della testa o dell’intelletto).
La prima riguarda la passività dell’intellettualismo, prevalente nella nostra epoca, la quale, collegata al sistema neurosensoriale, non conduce ad alcuna trasformazione evolutiva, e può tutt’al più costruire catene di comportamenti o di modelli comportamentali che abbisognano di immaginazione o logica immaginativa per non rimanere primitive. Io le chiamo catene in quanto incatenano l’individualità alla specie e l’io al noi, moraleggiando il passaggio involutivo dall’etica alla ricetta etica, come se l’etica fosse dietetica.
La seconda è propriamente l’attività creativa dell’immagine delle cose, o della “pellicola” immateriale che distingue la forma delle cose. Si tratta dell’attività della logica immaginativa, che inizia dove termina l’intellettualismo astratto.
La logica immaginativa è di breve durata e, se non auto-disciplinata, degenera nel fantasticare.
Non essendo incatenata al sistema neurosensoriale, la logica immaginativa genera un pensare libero dai sensi, il quale - diversamente dal pensare intellettuale - è attivo. Chi dalla propria interiorità sa trarre le forze necessarie per far sorgere in sé questo pensare attivo di tipo morfologico in quanto sperimenta forme create dall’io umano, sperimenta un pensare vivente, nella misura in cui, immaginando, vive la vita del pensare: l'io crea le forme perché si distingue da esse, infrangendosi in esse come io. Per esempio, il bambino impara a dire io dicendo “Ahi” ogni volta che si conosce diverso dalla forma dell’angolo del tavolo, che gli ferisce la testa se non sta attento. L’immagine della punta di quell’angolo lo “informa” del proprio io. Prima di quell’apprendimento dice “Tavolo cattivo” perché, non ancora identificato in sé, si identifica nell’immagine del mondo che ha di fronte.
È proprio questa caratteristica immaginativa che ci permette di evolverci, ovviamente se la sviluppiamo per farla sorgere in modo sempre più consapevole per poi disciplinarla. Quando immaginiamo, superiamo la dimensione spaziale, e penetriamo in quella del tempo (lo spaziotempo è un concetto spurio, contraddittorio, un’aporia, che comunque diverrà sempre più utile): se per esempio io immagino una cosa, devo rappresentarmela, e poiché ho a che fare con la memoria, ho l’esperienza del tempo. Se invece percepisco la cosa reale, per esempio il tavolo reale che mi sta di fronte, ho l’esperienza (di tipo passivo) del mero spazio, vale a dire: sperimento il tavolo secondo logica intellettuale, che è il livello inferiore dei quattro livelli di logica (inferiore non in senso morale ma evolutivo di me stesso).
Oltre a questi primi due livelli, vi è il livello ispirativo, che può essere anch’esso sviluppato, e che permette di conoscere la realtà che sta a fondamento dell’interiore logica immaginativa, per esempio: già per caratterizzare cosa si intenda con la parola “realtà” occorre saper distinguere fra un tavolo e l’immagine che ne ho, cioè fra un oggetto di percezione e la relativa sua rappresentazione. L’attività ispirativa deriva dall’analogia esistente col processo respiratorio (inspirazione ed espirazione) ben noto nelle esperienze di yoga o di consapevolezza del respiro.
Soprattutto per l’uomo odierno, considerato “animale” dalla “scienza”, è indispensabile riappropriarsi della conoscenza di questi livelli logici, in piena coscienza desta e non semi-sognante come avveniva per l’antico yogi indiano. Se oggi si ragionasse come l’antico yogi si arriverebbe a solipsismi o a "referenzialismi" intellettuali. Di fatto è già così, dato che molte persone fanno talmente fatica ad ascoltare e a comprendere i propri simili - basta osservare i dibattiti televisivi o alcuni post di forum internet per accorgersene - che non ascoltano più nessuno se non in modo formale o secondo il galateo.
Anche la logica ispirativa può degenerare in qualcosa di sognante. Il rimedio a ciò è che il nostro percepire interiore (l’udire interiore) diventi capace di attribuire per esempio ai suoni la diversa essenza proveniente dalla cosa risuonante: se con un martelletto percuoto un bicchiere e poi una pentola, odo due suoni differenti, che mi ispirano due differenti essenze, le quali riguardano la differente consistenza degli oggetti risuonanti. Allo stesso modo l’ascolto della voce umana di un mio simile mi darà altre essenziali informazioni sull’essenza del mio simile; non mi darà soltanto hertz, in base ai quali anche la logica matematica del computer può reagire, registrare e riprodurre.
Il passaggio dalla logica immaginativa a quella ispirativa esige l’uso di concetti differenti da quelli usati di solito nel nostro quotidiano. Se per esempio parlo del calore della fiamma del fornello che mi sta scaldando un caffè, non parlo del calore che i colori di un dipinto mi ispirano. Eppure tutti i film che vediamo, le opere coreografiche, o artistiche in generale, tutto questo, ci è più o meno gradito a seconda di queste tonalità di colore e di calore. Non ce ne accorgiamo, però assumiamo come reale il calore o la freddezza di un dipinto fino al punto di volerlo possedere e di acquistarlo.
In altre parole occorre sviluppare mobilità interiore che renda capaci di passare facilmente dalle esperienze fisiche a quelle interiori e viceversa.
La mancanza di questa mobilità interiore e il non essere pronti a questo aspetto immobilizza l’anima (che ha senso solo se vi è “animazione”: attività interiore) ed allora si diventa visionari, non veggenti. Il visionario vede solo dottrine, dogmi, ostie, cose che può toccare, mangiare e a cui attribuisce regole da credere. Il veggente invece vede le cose che i concetti e le idee evocano, anche se esse appartengono all’immateriale e/o allo spirituale: percepisce concretamente tali cose in modo sovrasensibile.
Tutto ciò che si manifesta nella realtà materiale è promosso da qualcosa di immateriale. Un esempio: viaggiando in auto a una certa velocità, scorgo a una certa distanza una curva e, dubitando di riuscire a fare quella determinata curva senza rallentare, rallento anche se non c’è alcun cartello che mi dice di rallentare. Se reputassi possibile procedere alla medesima velocità solo con l’ammettere di farcela - perché sono bloccato interiormente nell’assolutizzazione dogmatica che ognuno può credere ciò che vuole perché è libero di farlo, sarei un esaltato visionario, dato che trasformerei in allucinazione ciò che i miei sensi e il mio pensare mi offrono come oggetto di percezione (cioè la pericolosità della curva e/o la necessità di rallentare). Lo stesso può essere detto in altra forma: chi dà più importanza alla regola che al proprio percepire, vede il cartello stradale che dice di rallentare e rallenta, e se non lo vede o se manca il cartello non rallenta. Questo è il comportamento del fanatico delle regole, o del visionario, il quale non vede ma crede in una sua pregiudiziale visione del mondo secondo la quale la sua fede è la migliore. Insomma io sono un visionario nella misura in cui vedo non secondo logica di realtà (immaginativa, ispirativa, ecc.) ma velleitariamente, cioè “vedo” ciò che non c’è: un’immagine diversa da quella che potrei avere percettivamente circa la relazione di quella curva con la velocità a cui sto viaggiando. E quella inesistente immagine diventa il motivo del mio agire (da visionario). Agisco non in base a mie esperienze percettive ma in base all’assolutizzazione della mia “fede” o “dottrina”. Questa fissazione dell’immagine è tipica del visionario, del credente, del dogmatico, ecc.
Altro esempio: un donna si crea per fede un’immagine di sé contraria a quella della propria auto-fiducia ed afferma: in quanto donna sono colpevole di trasgressione e ingannata, quindi non posso insegnare alcunché all’uomo ma solo essergli sottomessa e partorirgli figli, come sta scritto nella mia fede (1Timoteo 2,11-15). Qualcuno potrebbe dire: ma una donna così scema non può esistere. In realtà esistono molte donne, come anche molti uomini, ridotti così dalla fede assolutizzata (o dallo zelo privo di conoscenza o di logica o di logos). L’immagine che per zelo non si sostituisce con un’altra rende visionari, fanatici, patologici insomma: “l’immagine che gli antichi si facevano della relazione della terra col sole e con gli altri corpi celesti, dovette essere sostituita da Copernico con un’altra, perché non andava più d’accordo con certe percezioni che prima erano sconosciute” (R. Steiner, “Il mondo come percezione”, cap. 5° de “La filosofia della libertà”).
Noi incominciamo a conoscere le cose a partire dalla loro sostanza fisica. Poi pian piano, attraverso la logica immaginativa e quella ispirativa, arriviamo a percepire sovrasensibilmente che vi è differenza fra il nostro stato di veglia e quello di sonno, dato che il mondo del sogno o degli archetipi, o dei simboli, che riguarda il mondo immateriale o spirituale, compenetra tutta la nostra vita, cioè tutte le ventiquattro ore di ogni nostro giorno, comprese le otto ore di sonno. Perciò, a questo livello, è possibile percepire che abbiamo anche un io superiore, ispiratore del nostro destino terreno, e che ci può perfino indicare la qualità della nostra vita nel post mortem, per esempio attraverso i sogni (anche questo argomento può essere sviluppato ma non in modo sintetico).
Il livello più alto della logica è quello intuitivo. La logica intuitiva è la facoltà conoscitiva più alta che possiamo sviluppare, perché “intuire” (dal latino “intus - ire”, “andare dentro”) significa conoscere dall’interno, e perché con l’intuizione consapevole si arriva a conoscere spiritualmente gli altri e le cose del mondo esterno proprio a partire dal loro interno. Ecco perché esistono persone che dall'inizio del ragionamento di un loro simile sanno già (intuiscono già) quello che egli sta per dire. Ciò è possibile.
Nel quotidiano di tutti, sperimentiamo continuamente e in modo certo un’intuizione precisa: l’intuizione dell’io. Questa esperienza di solito passa inosservata, e ciò la rende ancora più straordinaria, dato che la parola “io” è un’eccezione rispetto a ogni altra parola: infatti solo dall’intimo, l’io può essere percepito nella sua realtà. La parola “io” può essere sempre pronunciata e spiegata come qualsiasi altra parola, però la si può sperimentare nella sua realtà solo per riferirci a noi stessi. Nessun altro, infatti, può chiamarci “io”. Per chiunque, noi siamo un “tu”, e gli altri sono un “tu” per noi. Le cose stanno così perché tutti viviamo in modo incontrovertibile dentro di noi.
Grazie a questo livello logico (livello intuitivo), possiamo essere - proprio come accade con l’io - in tutte le cose e in tutte le creature.
La percezione dell’io è l’unico modo possibile per sperimentare il livello logico intuitivo.
Cosa avviene oggi? Certo, oggi, c'è un po' di confusione nei contesti logici. Se per esempio si provasse a chiedere a qualcuno di una qualsiasi confessione religiosa se la conoscenza sia o no limitata, egli risponderebbe di certo che lo è, e che proprio per questo motivo è necessario “credere”. Ne verrebbe però subito un problema: quello di confondere la PARTE col TUTTO. Si confonderebbe una conoscenza basata sui cinque sensi e sull’intelletto, che in effetti è limitata, con la conoscenza. Ciò sarebbe scorretto come sarebbe scorretto estendere la limitatezza del singolo senso - per esempio, la vista non conosce i suoni, cosi come l’udito non conosce i colori - all’organizzazione sensoriale complessiva, dato che è proprio l’organizzazione sensoriale complessiva, avvalendosi di altri sensi, a colmare le “lacune” che ciascuno di questi sensi singolarmente presentano. Occorre dunque distinguere, e non generalizzare o fare di ogni erba un fascio.
A differenza dell’uomo sedicente animale secondo la “scienza” di oggi, l’uomo che considerava (e considera) sé stesso non animale ma ominale non sentiva (e non sente) il bisogno di dimostrare logicamente l’esistenza di quanto percepisce mediante i sensi fisici. Quella è una mela e me la mangio. Dove sta il problema? All’inizio del secondo millennio, verso il 1100 – 1200, incominciò il problema. L’arcivescovo di Canterbury, il “Doctor magnificus” Anselmo d’Aosta (1033-1109), avvertì, per esempio, il bisogno di dimostrare, nel suo “Proslogion” (cfr. Anselmo, “Proslogion”, Ed. Rusconi, Milano 1996), l’esistenza di Dio. Ciò fu ed è un segno evidente che non si percepiva o sperimentava più tale esistenza mediante le forze della propria attività interiore (l’anima), cioè mediante i sensi superiori dell’io superiore o ominale (oggi è addirittura possibile dimostrare scientificamente, nei fatti, che i sensi non sono cinque ma dodici; dei dodici sensi parlerò in un'altra pagina di Marameo).
Emblematica, al riguardo, fu la disputa tra i realisti e i nominalisti: i primi erano ancora in grado di sperimentare qualcosa della realtà dei concetti o delle idee, mentre i secondi, avendo ormai perso tale residua capacità, li consideravano solo dei nomi.
Tramontata l’immaginazione e sorto l’intelletto, ci si incominciò a sforzare di ritrovare, per mezzo della logica, le certezze perdute. Una cosa è però la logica dell’intelletto, altra la logica del cuore, che insieme alla logica dell’intelletto conduce alla logica di realtà, ovvero all’unità o all’insieme di tutte e quattro le logiche: quella “analitica” dell’intelletto, quella “vivente” dell’immaginazione, quella “qualitativa” dell’ispirazione e quella “essenziale” dell’intuizione.
Cosa stava avvenendo all’inizio del secondo millennio? Avveniva una nuova coscienza. Era l’avvento dell’anima cosciente e la conseguente maturazione dell’intelletto, dato che non si godeva più della logica intuitiva, di quella ispirata e di quella immaginativa (di cui ancora usufruiva a suo modo e in misura minima l’anima razionale-affettiva di cui aveva parlato Aristotele). Si godeva soltanto della logica rappresentativa, cioè MECCANICA e BINARIA che schiude l’accesso alla realtà inorganica o della morte, chiudendolo, al contempo, a quanto si trovava (e che si trova) oltre tale livello.
Nasceva un modo nuovo di ragionare, che era quello di formarsi intellettualmente dei pensieri sulle “cause prime” dell’universo. Perciò si cercava di ritrovare in “modo nuovo” tutto ciò che era andato perduto.
Venne poi il concilio di Costanza (1414-1418) a condannare al rogo Jan Hus, il quale in una lettera ai suoi amici, scrisse: “E se voi foste stati a Costanza, avreste visto l’abominazione di questo concilio che si dice santissimo e infallibile, abominazione che ha fatto dire a parecchi cittadini di Svevia che la città di Costanza non potrà purificarsene che in trent’anni…”. Questo dato proviene da qualcuno che, pur nella sua stoltezza legionaria, fu autore della biografia di Hus: Benito Mussolini (B. Mussolini: “Giovanni Huss il veridico, Ednac, Roma 1948, p. 124). Si tratta di un libro raro, dato che Mussolini, che lo aveva scritto nel 1913, lo fece poi sparire dalla circolazione, in vista dei Patti Lateranensi del 1929. Del concilio di Costanza egli afferma che Hus “osò fronteggiare serenamente il Concilio, l’Imperatore, la Chiesa. E sì, che non altrettanto sereni erano gli avversari o meglio i giudici. Pare che di frequente le discussioni del Concilio si concludessero in un pugilato.
Nelle postille alla “Storia” del Cantù c’è un episodio che merita di essere segnalato, poiché mostra la violenza brutale cui trascendevano i “grassi” ministri di Dio: «Nel Concilio seguì un rumore fra l’Arcivescovo di Milano e quello di Pisa e dalle parole ne vennero alle mani, volendo strangolare l’uno l’altro perché non avevano armi. Onde molti si gettarono giù per le finestre del Concilio» (ibid. p.50).
In quel periodo sorsero personalità, come Huss, Wicliff e altri, nei quali l’essere dell’anima cosciente risplendeva nel modo più Fulgido. Comprendere la natura dello spirito che animava tali personalità è importante, perché esse sentirono che l’intellettualità, che andava allora sorgendo con l’anima cosciente, doveva essere capace di accogliere ciò che in passato era raggiungibile per mezzo dell’immaginazione.
Inutile dire che questo, per cominciare a "muoverci" un po', almeno nel terzo millennio, dovremmo sentirlo anche noi.
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