LUIGI EINAUDI ERA CONTRO KEYNES

 

Presentazione di Marameo

Il seguente scritto introduttivo di Einaudi (*) fu pubblicato nel 1933 sulla "Riforma sociale" e dava il titolo "Il mio piano non è quello di Keynes" ad una raccolta di saggi di Einaudi, pubblicata da Rubettino nel 2012. Fu scritto da Einaudi a commento del volume di Keynes "The means of prosperity", appena pubblicato a Londra da Macmillan.

(*) Einaudi, a differenza di Marameo, si professò cattolico. Oggi però il cattolicesimo (universalità) è diventato cattolicismo, proprio perché la "madre chiesa" scotomizzò il diritto universale cristiano di Epicheia (= equità = disobbedire a leggi ritenute ingiuste”. Ciò, tuttavia, non inficia minimamente la veggenza di Einaudi in Economia).  

Il volume di Einaudi raccoglieva alcuni articoli apparsi nel marzo dello stesso anno su Times, quindi il testo in commento non era ancora quello di Keynes del 1936 della ambiziosa "Teoria generale dell'occupazione, degli interessi e della moneta". Più propriamente si trattava di quello che Einaudi definì un libello, nato da interventi di grande efficacia e di grande impatto, attraverso i quali Keynes interveniva nel dibattito di politica economica del suo tempo. Einaudi si applicò con rigore a ricostruire l'impianto teorico che sosteneva le proposte di Keynes. Impianto, che non era esplicito ed ordinato negli articoli che componevano il volume commentato.

Già questo è impressionante.

Si può dire che Einaudi abbia fatto ordine nel pensiero di Keynes, prima di Keynes stesso, che riuscirà a farlo solo tre anni dopo nella sua "Teoria generale".
Già allora Keynes proponeva una tesi precisa per uscire dalla grande depressione iniziata dagli Stati Uniti con il giovedì nero del 24 ottobre del '29, che si era velocemente propagata in tutto il mondo sviluppato.

In estrema sintesi, la proposta di Keynes era accrescere la spesa pubblica in deficit e stampare tutta la moneta necessaria per assecondare la maggiore spesa pubblica.
Einaudi svelò la natura intrinsecamente inflazionista di questa ricerca e contestò radicalmente l'ipotesi macroeconomica di Keynes, secondo la quale un rialzo generalizzato dei prezzi avrebbe potuto aiutare a ricostruire i margini di profitto delle imprese e quindi indurle a fare maggiori investimenti. Semmai, la caduta dei profitti, e quindi degli investimenti, era un fattore MICROECONOMICO per Einaudi. "Uno squilibrio dei prezzi", cito, "dovuto al fatto che", cito ancora, "taluni prezzi non ribassarono o non furono lasciati ribassare". Dunque, le politiche inflazionistiche NON aiutano, anzi, secondo Einaudi, furono (e ancora oggi, 2024, sono) espedienti magici, che finiscono per aggravare i mali dell'economia. Il punto è, spiega Einaudi, che NON SI FANNO PASTICCI DI LEPRE SENZA LA LEPRE.

Fuor di metafora: ogni tentativo di forzare la spesa e gli investimenti oltre le risorse disponibili, può, sì, produrre effetti allocativi, come spiega Einaudi, probabilmente a favore dei malfattori o dei fortunati ma NON accresce il benessere collettivo, anzi, finisce per danneggiarlo. Una lesione che va tenuta ben presente ai giorni nostri quando da tante parti si avanzano fantasiose proposte per fare IL PASTICCIO DI LEPRE SENZA LA LEPRE, magari sostituendo alla moneta internazionale di Keynes il DEBITO dell'unione europea. Buona lettura e state in campana!

 

IL MIO PIANO NON È QUELLO DI KEYNES
Dalla penna del presidente Einaudi
con note di Marameo (ndm).

 

Il saggio di Keynes può essere riassunto in proposizioni così concatenate:


1) Supponiamo che la crisi odierna sia dovuta ad un difettoso funzionamento dei congegni mentali psicologici i quali conducono a decisioni e ad atti di volontà di uomini; che siano un paradosso e tanti operai edili disoccupati, quando tanto bisogno va di case che il problema non sia di mezzi né di volontà di lavorare, non sia né tecnico né agricolo né commerciale né organizzativo né bancario ma sia un problema dello spirito ed assomigli all'imbarazzo di due abili conducenti di autocarri in perfetto stato i quali, incontrandosi in ampio spazio, non sanno proseguire perché, ignorando le leggi della strada, cozzano per non sapere chi debba andare a destra e chi a sinistra. Il paradosso economico odierno sta nella mancanza di contatto tra fattori produttivi disponibili, uomini disoccupati, macchine inoperose, terre incolte, materie prime inutilizzate e desiderio o bisogno di beni che i fattori disoccupati produrrebbero se fossero occupati.

2) Normalmente il contatto tra fattori produttivi e desiderio di beni è posto da imprenditori in cerca di profitti. La dinamica economica è messa in moto da imprenditori i quali, acquistando sul mercato fattori produttivi e vendendo prodotti, compiono nella società odierna l'ufficio del padre di famiglia nelle società patriarcali chiuse (del Priore o guardiano nei conventi medievali, del ministro della produzione in una società collettivistica). Ma l'imprenditore opera ossia correre rischi quando vede la possibilità di un profitto di una differenza positiva fra il prezzo ricevuto dai prodotti venduti ed il costo dei fattori produttivi acquistati. Stabilito il contatto, messa in moto l’impresa, questa basta a sé stessa, perché i fattori produttivi consumano quanto essi stessi producono: non materialmente gli stessi beni dati in cambio di beni prodotti da altri ma in sostanza gli stessi sotto mutata specie specie. Oggi il contatto non si opera, perché l'imprenditore non spera profitti; la macchina economica è incantata: i fattori produttivi, i beni strumentali e uomini, rimangono disoccupati ed i desideri degli uomini restano insoddisfatti. I fattori produttivi occupati devono assoggettarsi a taglie enormi per mantenere in vita quelli disoccupati. Occorre disincantare la macchina.

3) Poiché al disincanto non giova il normale motivo economico del profitto, è necessario trovare un espediente, vuolsi il dare lavoro ad un milione di disoccupati, basta a diecimila lire a testa un fondo di 10 miliardi di lire: se gli imprenditori privati non osano, osi lo Stato. Sui dieci miliardi spesi lo Stato è sicuro di recuperarne tra quel che risparmia in minori sussidi ai disoccupati e quel che lucra, per cresciute imposte sul cresciuto reddito dei contribuenti, almeno cinque.

4) Supponiamo che lo Stato ottenga, a mutuo da qualcuno che lo possiede o lo crea, il fondo dei dieci miliardi di lire. Supponiamo che il mutuo sia concesso a lunga scadenza e da tenue saggio di interesse. Ecco utilizzati i fattori produttivi già esistenti e disponibili: terre da bonificare, specchi d'acqua da trasformare in porti, materiali edilizi da ridurre a case finite e uomini disoccupati da applicare alle terre, alle acque ed alle case. Ecco creato il miracolo del rimettere in moto la macchina economica senza aumentare i prezzi dei fattori produttivi e dei prodotti. La spesa pubblica si esaurirebbe in gran parte nel crescere prezzi o nell’importare di più dall'estero se non esistessero margini di fattori produttivi disoccupati. Dopo assai rompimento di capo, conclusi che il sugo del discorso è in queste poche parole. Se invece esistono veramente uomini e i fattori produttivi disoccupati, il contatto operato tra essi non è cusa di dannose perturbazioni in seno ad altri gruppi sociali. Sarebbe come se Il milione di disoccupati potesse essere trasportato in un'isola finora deserta e, da lì, provvedesse da sé alla propria vita. Quale danno subirebbe il resto della collettività? Anzi, avrebbe due vantaggi: risparmiare la falcidia dei sussidi di disoccupazione e distribuire su di sé e sugli ex disoccupati, invece che su di sé soltanto, il costo delle spese pubbliche, delle imposte. Il problema si complicherebbe se esistessero solo operai disoccupati e non ha anche fattori materiali produttivi disponibili. Perché in tal caso la nuova domanda da parte dei dieci miliardi di lire di fondo statale si rovescerebbe sulla massa fissa degli altri fattori produttivi e ne farebbe crescere il prezzo. Lo Stato si metterebbe in concorrenza con gli imprenditori privati, scompigliandone tutte le basi di calcolo economico, con conseguenze non facilmente prevedibili. Nell'ipotesi fatta, nulla di tutto ciò. Esistono uomini, macchine, terre, navi, ferrovie, porti inoperosi, che non producono perché dissociati. Mettiamoli a contatto e coi beni prodotti gli uomini disoccupati alimenteranno se stessi, senza nulla chiedere ad altri. Anzi, cessando di ricevere da altri elemosina.

5) Pare dunque che a risolvere pienamente il paradosso economico odierno manchi solo un anello della catena: i dieci miliardi di lire di fondo, necessari allo Stato per far domanda sul mercato dei fattori produttivi, atti a creare il nuovo prodotto. In paesi antiquati e da economisti antiquati, come lo scrivente, la risposta alla domanda: "Dove trovare i dieci miliardi?" sarebbe presso i risparmiatori. Fino a qualche anno fa, quando si parlava di risparmio, il pensiero correva al solito "bonus pater familias", il quale guadagna all'anno al mese o al giorno 100 e spendendo 80 reca i restanti 20 alla cassa di risparmio o alla banca. Se a furia di 20 lungo un anno si costituisce un fondo di 10 miliardi, ecco l'espediente, il "device" (dispositivo) cercato ed utile a mettere in moto la macchina. All'uomo della strada e dagli economisti antiquati pare dunque assurdo trovare a prestito 10 miliardi se prima i 10 miliardi non siano stati messi da parte e non siano tuttora disponibili. SENZA LA LEPRE NON SI FANNO PASTICCI DI LEPRE.

6) Pare invece che, nei paesi avanzati, i pasticci di lepre si facciano ora con i conigli. Ho l'impressione, cioè, che da qualche tempo gli economisti inglesi siano assidui alla nobile fatica di cercar conigli da sostituire alle lepri. Quando sentono parlare di "risparmio all'antica", fanno smorfie. O che non ci sia bisogno di tanta fatica o di tanta rinuncia. Perché le disgrazie attuali non sono dovute a carestia terremoti e guerre e neppure a difetto di fattori produttivi ma al difettoso operare di una qualche rotella nella testa degli uomini. Sta di fatto che molti economisti d'avanguardia preferiscono rivolgere la loro attenzione al surrogato di risparmio piuttosto che al risparmio inteso nel senso tradizionale. Che cosa sia tale surrogato di risparmio non è facile spiegare: è un certo che di nebuloso, un miscuglio di vecchi concetti plausibili e di astrazioni nuove. La catena compiuta sarebbe la seguente:

a) si crea la nuova massa monetaria internazionale;
b) la riserva, così cresciuta degli istituti di emissione, consente una politica creditizia espansiva;
c) se ne giovano da prima gli Stati per dare, con prestiti e lavori pubblici, lavoro ai disoccupati ed utilizzare i fattori produttivi inerti;
d) in seguito a questa prima spinta, la fiducia rinasce, i prezzi risalgono, spuntano speranze di profitti, gli imprenditori si svegliano.

La macchina economica arrugginita, sollecitata dall'olio dell'ottimismo, si muove dapprima piano piano e poi via via più velocemente. La crisi è finita.

La ricostruzione del pensiero di Keynes non ha come scopo di facilitare la critica ai particolari della sua proposta principale, in quanto essa dice che nei punti di avvallamento della curva del ciclo economico, una politica di lavori pubblici ad opera dello Stato è conveniente. Essa riespone una teoria classica. Con le opportune cautele riguardo ai limiti della efficacia dei lavori pubblici e dalla necessità di non continuare nei lavori quando la curva del ciclo dalla valle fonda volga a risalire verso il monte, la teoria classica è anche pacifica.

Ho voluto invece, ricostruendo, offrire un esempio tipico della pericolosità del camminare diritti sui fili di rasoio.

Tutta la catena poggia, nella sua parte principale, sulla verità della proposizione prima, cioè che la crisi presente sia dovuta al difettoso funzionamento di qualche congegno mentale psicologico dell'agire umano e, nella sua parte aggiunta, che a ricreare profitti e quindi a ridare, dopo il primo impulso dei lavori pubblici statali, incentivo a operare spontaneo degli imprenditori, giovi il rialzo del livello generale dei prezzi. Se il mondo è sottosopra perché gli uomini disoccupati non riescono a mettersi in contatto con le cose disponibili, è logico che basta raddrizzarlo e farlo muovere, lo spintone, l’espediente, il "device" di Keynes.

Sia qualsivoglia l’espediente, aperture di credito a spizzico delle banche, o la reflazione all'ingrosso, con diluvio internazionale di carta stampata, l’espediente può giovare. Contro una malattia dello spirito, l'incantesimo, il medico, deve farsi stregone ed operare con uguali arti di incanto.

Tra le stregonerie tiene, giustamente, gran luogo la fabbrica di carta stampata. Poiché i popoli non credono più, dopo l'esperienza del dopoguerra, nella carta stampata nazionale, esorcizziamoli con carta stampata a timbro internazionale. Se ciò giovi a fugare dal loro corpo il demonio del pessimismo e dell'inerzia, esorcizziamo.

È però la crisi davvero una malattia dello spirito, dovuta a tale specie di incanto?

Keynes riconosce, sul bell'inizio del saggio, che se la nostra povertà fosse dovuta alla carestia o al terremoto o alla guerra, se a noi mancassero cose materiali o di mezzi di produrle noi non potremmo sperare di trovare le vie del ritorno alla prosperità altrove fuorché nel duro lavoro, nel risparmio e nello spirito inventivo. Keynes ammette per un momento e, per ipotesi astratta, solo per negare, che quelle siano le cause della malattia. In realtà le nostre difficoltà sono notoriamente di un'altra specie e segue la proposizione sopra esposta come prima.

Io direi che, notoriamente, le cause dei nostri malanni sono proprio quelle da lui negate. La guerra e le malattie, da essa inoculate nello spirito degli uomini, cioè ingordigia, voglia di improvvisi e arricchimenti, impazienza della dura fatica, incapacità alla rinuncia ed al risparmio, intolleranza del lungo aspettare il frutto della fatica, spirito di nazionalismo intollerante, il quale ha chiuso ogni popolo in sé stesso ed ha inutilizzato gran parte delle risorse naturali esistenti, producendo gli stessi effetti delle carestie di un tempo, fanatismi religiosi in Russia, in Cina e in India, religiosi anche se in forme nuove, comunistiche o xenofobe, o gandiane, che fanno preferire agli uomini stare senza cibo e senza panni pur di non aver contatti pericolosi con infedeli. Come si può pretendere che la crisi sia un incanto e che, a manovrare qualche commutatore cartaceo, l'incanto svanisca, quando tutto invii, anche ad avere gli occhi mediocremente aperti, sia testimone della verità del contrario. Si osservano, è vero, casi di disgrazia incolpevole, di imprese sane travolte dalla bufera ma quanti e quanti esempi di meritata punizione! Ogni volta che, cadendo qualche edificio, si appurano i fatti, questi ci parlano di amministratori ed imprenditori incompetenti o avventati o disonesti.

Le imprese dirette da gente competente e prudente passano attraverso momenti duri ma resistono. Gran fracasso di rovine, invece, attorno a chi fece in grande, a furia di debiti, a chi progettò colossi, dominazioni, controlli e consorzi, a chi per sostenere l'edificio di carta, fabbricò altra carta e vendette carta a mezzo mondo, a chi, invece di fruttare l'intelletto per inventare ed applicare congegni tecnici nuovi o metodi perfetti di lavorazione e di organizzazione, riscosse applauso e profitti, inventando catene di società, propine (termine arcaico, i.e.: mance, regali - ndm) ad amministratori, comparse, rivalutazioni eleganti di enti patrimoniali. L'incanto c'è stato e non è ancora rotto ma è l'incanto degli scemi, dei farabutti e dei superbi. A iniettare carta, sia pure carta internazionale, in un mondo da cui gli scemi, i farabutti ed i superbi non siano ancora stati cacciati via se non in parte, non si guarisce, no, la malattia ma la si alimenta ed inciprignisce (i.e.: la si aggrava - ndm). Non l'euforia della casa di moneta occorre ma un pentimento, la contrizione e la punizione dei peccatori (anticamente il debito era considerato un peccato - ndm). Dalla crisi non si esce se non allontanandosi dal vizio e praticando la virtù. Giovasse almeno la stregoneria della carta stampata a ricreare profitti ed a ridare perciò impulso all'opera degli imprenditori privati, ahimè, che anche qui la catena del ragionamento pare spezzata.

Sembra, a sentire alcuni, che gli anelli siano:

a) sulla base delle cresciute riserve, le banche (crescono le aperture di credito a prezzo mite);
b) i lavori pubblici, condotti per mezzo del credito, danno la prima spinta ai prezzi;
c) il rialzo dei prezzi ricrea i profitti o la speranza dei profitti;
d) la rinnovata speranza dei profitti dà impulso allo spirito di intrapresa privata.

La proposizione c, che il rialzo dei prezzi ricrei profitti, è vera solo nell'ipotesi che i lavori pubblici, condotti per mezzo del credito, spingano in su precisamente quei prezzi che devono crescere per ristabilire l'equilibrio. La mancanza di profitti non proviene dal fatto che i prezzi siano bassi ma dal fatto ben diverso che essi sono squilibrati tra di loro. La crisi e la mancanza dei profitti nascono dallo squilibrio dei prezzi: dal fatto che taluni prezzi non ribassarono o non furono lasciati ribassare. E poiché i prezzi sono reddito per gli uni e costo per gli altri, molti perdono e perdono soprattutto gli imprenditori.

Un rialzo dei prezzi che fosse dovuto a lavori pubblici, compiuti per mezzo di inflazione creditizia, lascerebbe sussistere la sproporzione tra prezzo e prezzo, cioè fra costi e ricavi. Forse l'accrescerebbe.

Chi ricordi che il disordine sociale del dopoguerra fu dovuto non alla guerra in sè ma alla inflazione monetaria la quale si accompagnò, sebbene non necessariamente ad essa, rimane sgomento dinanzi alle possibili conseguenze sociali di un nuovo esperimento cartaceo a tanta poca distanza da quello recente. Oggi ripetere l'esperimento potrebbe significare il crollo della civiltà occidentale.

Si conosce la replica degli inflazionisti o reflazionisti (come oggi essi preferiscono chiamarsi). La reflazione sarà prudente, limitata al necessario per risollevare i prezzi ed i redditi non da 65 a 100 ma appena ad 80, circondata da garanzie strettissime.

Tutto sommato, ritengo che i percettori dei redditi variabili corrono meno rischio nel fare buon gioco a cattiva fortuna piuttosto che nel reagire con espedienti. L’espediente monetario vale come tentare la fortuna a Montecarlo. Può andar bene ma può rinnovare il disordine del 1918-1920. Nuovi arricchimenti gratuiti e nuovi impoverimenti incolpevoli farebbero ridivampare l'incendio, che faticosamente sembrava andasse spegnendosi, degli odi e delle invidie sociali. Come sempre accade nella storia i lestofanti, i procacciatori, gli arricchiti, saprebbero porsi in salvo per tempo. Cadrebbero gli Innocenti, gli industriali, gli agricoltori, i commercianti probi e sensati, i quali hanno fin qui resistito all'urto della crisi. No! Si corre minor rischio a pagare imposte alte ed interessi invariati. Vale meglio rassegnarsi a non avere reddito e da lasciarne godere temporaneamente la propria quota a guisa di premio di assicurazione della pace sociale ad impiegati ed operai. Alla lunga, chi riuscirà a pagare gli interessi pattuiti, vedrà salire alto il proprio credito. La rigida osservanza della parola data, spinta ben anche alla sopportazione di quella che è o pare ingiustizia sostanziale, è ancora e sarà per un pezzo la miglior garanzia di successo nella vita degli individui e dei popoli.

 

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